Ritardi e omissioni: dopo il trasferimento va a processo l’ex direttrice del carcere di Pescara

25 Settembre 2025

Armanda Rossi sotto accusa. Nel mirino una ventina di episodi, sfociati poi nella rivolta in carcere dopo il suicidio di uno straniero

PESCARA. Fissata all'11 dicembre prossimo la prima udienza del processo a carico dell’ex direttrice del carcere San Donato di Pescara, Armanda Rossi, rinviata a giudizio dal gup Giovanni de Rensis. Rigettata l’eccezione di incompetenza funzionale (vista la presenza fra le parti offese dell’ufficio di sorveglianza, chiarito poi che si trattava di un mero errore materiale) l’avvocato Massimo Solari aveva chiesto il non luogo a procedere per la Rossi, mentre il procuratore Giuseppe Bellelli aveva ribadito la sua richiesta di processo. Delle 16 parti offese elencate (tutti detenuti) una soltanto si è costituita.

E quindi, davanti al collegio, Rossi dovrà difendersi dall’accusa di omissioni di atti d’ufficio: conseguenza di una serie di comportamenti evidenziati dagli stessi detenuti, dai rispettivi avvocati, ma soprattutto dall’ufficio di sorveglianza che poi, con la sua dettagliata relazione, ha fatto scattare l’inchiesta. Una gestione a dir poco discutibile della struttura penitenziaria che ha raggiunto il suo apice nel febbraio scorso quando, a seguito del suicidio di uno straniero, vide scoppiare una rivolta in piena regola. A Pescara arrivarono i vertici del Provveditorato che consegnarono alla Rossi il provvedimento di trasferimento immediato a Frosinone, dove attualmente si trova in qualità di vicedirettrice.

Il capo di imputazione è dettagliato e riporta una ventina di episodi e le presunte omissioni a carico dell'imputata, dove si riferiscono anche episodi piuttosto particolari: comportamenti che violano i diritti del detenuto. E quando ad evidenziare questi aspetti tanto delicati è addirittura il magistrato di sorveglianza, vuol dire che la situazione è giunta a un punto di saturazione tale da costringere i vertici delle strutture penitenziarie a prendere un provvedimento radicale come quello del trasferimento. L’inchiesta prese infatti le mosse da una relazione del magistrato di sorveglianza che era ormai subissato da lamentele di ogni genere che arrivavano dai difensori dei detenuti e dagli stessi detenuti che lamentavano un comportamento contro legge da parte della direttrice.

«In tempi diversi», si legge nell'imputazione , «dalla data del suo insediamento, 12 aprile 2023, indebitamente rifiutava il compimento degli atti del proprio ufficio richiesti dal magistrato di sorveglianza che, per motivi di giustizia, dovevano essere compiuti senza ritardo». Ma quei solleciti, così come le tante richieste di vario genere dei detenuti, finivano in un cassetto senza che nessuno, tantomeno il magistrato, riuscisse ad avere una risposta. Rossi avrebbe anche disposto una perquisizione a carico di un detenuto con denudamento completo: una prassi che da anni si attua al massimo per terroristi o detenuti estremamente pericolosi.

Fra le accuse quella di non aver dato seguito a una richiesta di chiarimenti del magistrato di sorveglianza circa una modifica “in peius” adottata dalla direttrice ai danni di un collaboratore di giustizia, senza alcuna valutazione del competente magistrato. E poi la lunga serie di lamentele dei detenuti (in 37 firmarono una istanza di reclamo) in relazione alla qualità del vitto in riferimento a «pane secco, frutta di ultima scelta, tutta la carne congelata e tagliata a fette con l'affettatrice»; e poi anche lamentele sulla gestione dei fondi dei detenuti.

Nella sua memoria difensiva Rossi, tramite il proprio legale, aveva invece puntato il dito sulle condizioni del carcere dal suo insediamento per arrivare a chiedere l’archiviazione della sua posizione. «Il carcere è stato consegnato alla mia assistita in una condizione di desolante abbandono sotto tutti gli aspetti; con una elevata percentuale del personale che agiva con modalità lavorative disfunzionali e con superficialità: di fatto il carcere era in mano al totale arbitrio del singolo operatore».

Uno scarico di responsabilità inaccettabile verso i suoi sottoposti, senza tralasciare la questione del sovraffollamento: «Tutto ciò accadeva», si legge nella memoria, «in un contesto di popolazione detenuta sempre più numerosa (460 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 276 posti letto) violenta, facinorosa, problematica sotto il profilo psicologico e psichiatrico, spesso conseguenziale all'abuso di droghe e di alcol». Per arrivare a concludere che «il carcere di Pescara appariva compromesso in toto in modo quasi irreversibile e difficilissimo da recuperare». Una situazione che resta ancora oggi difficile, ma che con l'arrivo del nuovo direttore si è quantomeno stabilizzata, grazie anche ai buoni rapporti ricostruiti con avvocati, detenuti e magistrato di sorveglianza.

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