Di Carlo e la Coppa Italia: «La mia storia tra i pali»

Cadute e risalite dell’ex portiere pescarese, in trionfo a Bologna nel ’70
PESCARA. È tornato lì dove tutto era cominciato: nel parco di Villa di Riseis. Dino Di Carlo, da Borgomarino alla vittoria della Coppa Italia nel 1970, con la gloriosa maglia del Bologna. L’ex portiere rossoblù, pescarese, oggi 79enne, custodisce gelosamente tutti i ricordi di una carriera di salite e discese. Dai dilettanti alla serie A. Il ritorno in D e l’ascesa verso la B. E ancora dalla quarta serie alla C, prima di chiudere la sua storia tra i pali a 60 anni suonati.
La prima volta nei professionisti a Prato. Poche partite, ma gli occhi della serie A addosso grazie alle prestazioni con la selezione militare. La Lazio non trovò l’accordo con i toscani per prenderlo, allora scese la Pistoiese, ancora in C. «La mia fortuna: lì ho giocato e ho avuto la possibilità di approdare al Bologna di Fabbri», racconta Di Carlo, che da undici anni collabora con l’Accademia Biancazzurra dell’ex Pescara Simone Vitale sul campo del parco Villa de Riseis. «Arrivai per fare il terzo, ma il titolare Vavassori era infortunato. Era la stagione ’69/’70, quella dello scudetto del Cagliari. Fabbri mi fece giocare due partite da titolare. Eravamo anche in Coppa Anglo-Italiana, vinta contro il Manchester City. Pochi mesi dopo, a novembre, mi ritrovai in Quarta serie, al Baracca Lugo. Potevo andare al Genoa, ma scelsero un portiere più esperto e fui costretto a scendere nei dilettanti». Da lì a Parma, in C (secondo posto alle spalle dell’Ascoli nel ’72). Gli emiliani lo cedono al Catanzaro, in B, ma dopo tre stagioni lascia la Calabria prima della storica promozione in A dei giallorossi firmata da Di Marzio (’75/’76). Di nuovo valigie in mano: l’estate del 1975 - svincolato - si allenava con il Pescara e sembrava tutto fatto per firmare. Quel sogno non si realizzerà.
Era fatta con l’Atalanta, ma l’ultimo giorno di mercato i bergamaschi scelsero il quarantenne Pizzaballa al suo posto. Dopo qualche allenamento con l’Ancona, va a Lecce, in serie C. Parte dalla panchina, ma scalza i suoi colleghi e in sei mesi diventa decisivo per la promozione in B dei salentini, 27 anni dopo l’ultima volta. «Abbiamo vinto anche la Coppa Italia di C contro il Monza di Braida e Buriani». Quell’estate, a 30 anni, il matrimonio con la signora Antonia e il viaggio di nozze. Ma di nuovo il mercato gli riserva un brutto scherzo: il Lecce acquista un altro portiere nell’ultimo giorno di scambi e lo lascia senza squadra. Torna ad allenarsi con il Pescara, ma quando arriva la chiamata di Tony Giammarinaro da Chieti... «Vieni con noi», mi disse. «Erano in quarta serie: accettai, a fine girone d’andata avevamo già vinto il campionato. L’estate dopo il Pescara mi chiamò: era fatto l’accordo con Cadè, ma all’Adriatico arrivò Pinotti. Non ho mai capito il motivo... Rimasi a Chieti, in C, e salimmo anche in C1: lì tutti mi volevano bene, nonostante fossi pescarese».
L’ultima volta in C con l’Anconetana: «Avevo accettato di giocare una stagione in cambio di un posto di lavoro. Ma la società non rispettò i patti. Avevo 35 anni e decisi di dire basta. Entrai al Comune di Camerano, lavoravo all’ufficio tecnico e nel frattempo giocavo lì in Promozione. Dalla C mi cercavano ancora, dissi no alla Rondinella di Firenze, in C1: avevo due bambini (Orlando e Alessia, poi è arrivata anche Francesca) e volevo tenermi stretto il lavoro. Poco dopo superai un concorso e entrai in banca».
Il calcio è rimasto solo un secondo lavoro, un hobby, ancora per qualche stagione, in giro per le Marche, tra Castelfidardo, Fossombrone, Osimo e poi ancora a Camerano. Il ritorno a Pescara per seguire le figlie che avevano deciso di tornare a vivere sulla riviera dannunziana. Aveva 62 anni e, clamorosamente, tornò di nuovo tra i pali al Rampigna per giocare in una squadra Uisp. Una sola stagione, da record, prima di diventare allenatore tra Caldora, Flacco e poi nelle giovanili.
Atleta di grande prestanza, Dino Di Carlo: un portiere padrone dell’area piccola. «Se arrivava un pallone in area, ai miei compagni dicevo: ci penso io». Sui quotidiani sportivi nazionali tanti articoli su di lui che ne esaltavano le doti atletiche e il grande stacco da terra nelle uscite alte. «I nostri portieri oggi hanno perso alcuni gesti tecnici fondamentali. Pensare che da ragazzino mi volevano nella squadra di atletica, ma io preferivo il calcio e ho detto no».
Negli anni ruggenti ha avuto compagni di squadra diventati leggende. Da Bruno Pace a Giacomo Bulgarelli, in quel Bologna da favola, a Claudio Ranieri, nello spogliatoio del Catanzaro. «Ma ho sempre pensato più al bene degli altri e della squadra che al mio. Altrimenti avrei fatto una carriera diversa. Bruno Pace? Quando sono arrivato a Bologna, lui era già un personaggio amatissimo dalla città e dai tifosi. Abbiamo avuto un bellissimo rapporto. Per me i colleghi sono stati come fratelli».
L’esordio in serie A - il 19 aprile 1970, pareggio interno con la Sampdoria - un momento indimenticabile. «Bologna è stata un’esperienza bellissima. Ma il finale è stato altrettanto doloroso, un epilogo brutto, che non mi aspettavo. Quella è stata la squadra più forte in cui ho giocato, con Roversi, Savoldi, Mujesan e capitan Bulgarelli. Vedere il Bologna di Italiano vincere la Coppa Italia qualche mese fa è stata una gioia immensa, che mi ha riportato indietro negli anni».
Oggi educa i bambini dell’Accademia: «Ripeto continuamente loro, e ai genitori, di divertirsi. Per gli istruttori è la prima regola. Insegnare l’educazione, capire la psicologia del bambino, incentivare la pratica senza pressione».
Com’è cambiato il calcio rispetto a 60 anni fa? «Tutto cambia e si evolve. Andrebbe preservata, però, la materia prima: bisogna far crescere i nostri ragazzi, avere giocatori nostrani di qualità e tecnica, in grado di arrivare poi a formare una Nazionale di livello, come accadeva in passato. Bisognerebbe puntare sulla tecnica, oggi invece si predilige la parte atletica. I portieri, poi, hanno perso le peculiarità che rendevano la nostra la migliore scuola del mondo. Io mi allenavo per ore calciando contro un muro e bloccando la palla con le mani, senza guanti, per avere massima sensibilità del pallone al momento della presa. Oggi i preparatori guardano i tutorial su youtube...».
Dentro quel faldone di foto e ritagli ci sono più motivi di soddisfazione o più rimpianti? «Rammaricato non posso esserlo: erano altri tempi, io sono stato sempre un buono e ho sempre voluto avere buoni rapporti con società e compagni. Mi dispiace solo che mai mi è stata data una spiegazione per alcune scelte fatte dai dirigenti in certi passaggi che potevano cambiare la mia carriera. Ma ho fatto anche delle rinunce per il bene della famiglia, e di questo sono felice e orgoglioso. Il Pescara? Non aver vestito la maglia della mia città è un rimpianto. Era fatta, avrei potuto far parte della rosa che ha poi conquistato la prima storica promozione in serie A».
©RIPRODUZIONE RISERVATA

