IL CALCIO CHE REGALA POESIA
di STEFANO TAMBURINI Ci sono partite che non vorresti finissero mai. Sono quelle in cui il calcio è pura poesia, il ritmo è gioia distillata, il batticuore avvolge le emozioni e le rende più limpide....
di STEFANO TAMBURINI
Ci sono partite che non vorresti finissero mai. Sono quelle in cui il calcio è pura poesia, il ritmo è gioia distillata, il batticuore avvolge le emozioni e le rende più limpide. A un certo punto, se non tifi per l’una o per l’altra, ti chiedi se dopo potrai vederne ancora di partite così. E se poi ti ripassano davanti agli occhi le scene penose dell’ultima Uruguay-Italia ti domandi se questo che stai vedendo è lo stesso sport che solo quattro giorni fa aveva altre velocità, con la palla più maltrattata che trattata. No, qui la accarezzano, la amano.
Certo, alla fine qualcuno si è dovuto arrendere ma l’equilibrio è stato così sottile che sono stati mille gli episodi che avrebbero potuto cambiare il destino di questa sfida. L’ultimissimo batticuore prima di quello enorme dei rigori arriva da una traversa scheggiata da Mauricio Pinilla, genio semiincompreso del calcio italiano – oggi al Cagliari, ieri al Grosseto – che è arrivato a un passo dal trovarsi il volto stampato sulle bandiere del suo paese. Poi sono arrivati i rigori, con i portieri più bravi di quelli che tiravano e l’ex nerazzurro Julione Cesar che ha fatto sgorgar anche qualche lacrimuccia di nostalgia ai suoi ex tifosi. Chi si è perso questa partita, si procuri una registrazione e se la riguardi e alla fine punti l’attenzione su quegli sguardi da western di Sergio Leone, con i primi piani degli occhi che sembravano quelli dello scontro finale de “Il buono, il brutto e il cattivo” nel cimitero dove era sepolto il bottino di una precedente rapina. Sono quelli del portierone verdeoro che colpiscono, non smette di piangere di gioia e racconta a tutti della delusione per gli errori di quattro anni prima in Sudafrica, quando aveva versato altre lacrime, di dolore. Nella sua testa, quella partita persa nel 2010, quasi certamente non era mai finita. Chissà quante volta avrà continuato a giocarla. Anzi, quella di ieri era la stessa, una sfida infinita, perché poi alla fine è un sogno, una visione, il crederci a tutti i costi che ti fa vincere prima ancora di una parata o un colpo di testa. Ecco perché una partita così avrei voluto che non finisse mai. Era calcio, sport, come gioia pura. Poesia, appunto. E quando è così, alla fine, ci si può solo alzare in piedi e applaudire vincitori e sconfitti. Chapeau.
@s__tamburini
©RIPRODUZIONE RISERVATA