Morgia: vince chi non bara e aiuta gli altri

L’allenatore dell’Aquila si racconta al Centro «Riempiamo lo stadio nuovo, si può fare»

L’AQUILA. Una stanza piena di sacchetti di carta tutti uguali. Ci sono i regali per calciatori e collaboratori. Da qui parte la chiacchierata con Massimo Morgia, che in sei mesi ha fatto ritrovare agli aquilani la voglia di andare allo stadio. Tra passato e presente, il tecnico si racconta con schiettezza. Una sorta di discorso di Capodanno, con uno sguardo al futuro.

Cosa regala Morgia?

«Un pensiero che meritano quelli del gruppo, che lavorano con me dalla mattina alla sera. Dovunque sono stato ho avuto sempre un grande legame col mio gruppo di lavoro».

L’allenatore è un cerbero, un maestro, un amico o un compagno più maturo?

«Un maestro, ma uno di quelli veri, che deve insegnare, oltre a quello che si fa in campo, quello che si deve fare fuori. Non come singolo, ma come appartenenza a un gruppo che persegue gli stessi obiettivi. Un maestro sia di sport sia di vita. Visto che è un capo acquisito, deve diventare un capo riconosciuto».

Allenatore e squadra insieme a vedere lo spettacolo “La storia che non si deve raccontare”...

«Silvio Sarta, amico di vecchia data, mi ha invitato. Molto bello. Mi ha fatto capire quello che solo in parte comprende chi non ha vissuto direttamente il terremoto. Anche quelli del Friuli e dell’Irpinia li ho sempre visti in tv: vedi le macerie, ma non ne respiri l’aria. Le scosse le ho avvertite un minimo anch’io, ma non mi hanno fatto paura. La cosa più brutta è scoprire che il sisma porta nelle menti umane danni non dico irreversibili, ma quasi. Non l’avrei pensato. Ho visto il terrore nei volti della gente, nel ricordare, nel rivivere. Nel dibattito politici-giornalisti i primi dicono che le cose sono migliorate in fatto di prevenzione. Ma chi ha perso figli e familiari non la pensa così. Ho capito il dramma di vite frantumate. Nessuno potrà mai restituire loro quello che hanno perso».

Dal letame spalato nel ritiro estivo al calendario coi ragazzi meno fortunati, alla realtà del terremoto. Un’empatia immediata con la città?

«Ho sempre pensato che, essendo un nomade come professione, dovunque vado sono un ospite. E come tale mi devo comportare. E come ospite voglio capire. Ma non mi basta sentirmi tale: voglio diventare una persona ben accetta nei luoghi dove vado. Lo posso fare, sì, attraverso i risultati, quello è il nostro lavoro primario. Però la cosa che m’interessa, ed è il bello di quello che faccio, è apprendere culture e modi di pensare diversi. Da Marsala a Palermo, da Lucca, Pistoia e Siena, da Foggia, Pavia o Bolzano mi sono sempre sentito coinvolto. A Siena frequentavo le contrade. Anche qui è giusto cominciare a documentarmi per vedere cosa c’è dietro la squadra sportiva».

Nel calcio, e fuori, oggi la storia che non si deve raccontare è...

«La storia che non si vuole raccontare e che bisogna dimenticare è tutto il brutto che c’è stato, che c’è, e continua a esserci nel calcio, dietro a questo fatto che per vincere si è usato qualsiasi mezzo, dal doping ai tanti casi di calcioscommesse dagli anni Ottanta in poi. Questo non dovrebbe più esistere. Lo sport dovrebbe essere l’emblema della lealtà, dei grandi valori. Invece, per vincere per forza, non solo in Italia, si è andati oltre questo e abbiamo svilito la cosa più bella: la partecipazione. A me piace vincere, ma in un ambiente sereno, perché poi l’ossessione di vincere si trasmette ai tifosi e da questo si generano violenze, esasperazioni, persino i morti dietro al calcio, le brutte cose che non dovrebbero esistere».

Per questo L’Aquila?

«L’ho scelta perché qui c’è un direttore sportivo, Battisti, che è stato mio giocatore. Con lui condividevamo le stesse cose. Ho un’età tale che non mi permetteva più di andare ad allenare in posti dove esistesse il simbolo di calcio che voglio io, lo stadio senza barriere. In Italia, si sa, ci sono le inferriate, le gabbie per gli ospiti. Juve e Udinese, poi, non sono alla mia portata...mi è capitata quest’occasione all’Aquila dove ho conosciuto Chiodi e Mancini, che mi sono sembrati persone perbene, ma soprattutto Ianni e Rossi, che avevano un’idea di settore giovanile come ce l’ho io. E ho deciso la nuova avventura».

Vengo dal mare... vivo sulla terra... sogno di volare: è il suo motto sui social. Può spiegarlo?

«È tratto dall’opera di un mio amico pittore. Ne ho fatto una trasposizione in una tesi a Coverciano: vengo dal mare sono le esperienze da calciatore, vivo sulla terra è il lavoro da allenatore, sogno di volare è vedere le famiglie allo stadio, gli applausi anche ai perdenti. E ai retrocessi».

All’Aquila si può fare?

«Non interessa a me se si può fare, io devo portare avanti un certo tipo di cultura. Non ho mai fatto diversamente da quanto credo, ma adesso non mi interesserebbe nessun’altra cosa che non fosse legata a un progetto che è utopia, ma in quello credo e vado avanti».

In politica più destra o più sinistra?

«Non mi sono mai nascosto: sono sessantottino dalle origini, dal movimento studentesco che nasce dalle rivolte americane, dai figli dei fiori, da un senso di libertà. Poi la politica se ne impossessò e quel tipo di cultura venne preso dalla sinistra. Quella era la mia identificazione, nel prosieguo degli anni un certo modo di far politica anche della sinistra mi ha disgustato. Sono vent’anni che non voto, però mi ritengo una persona che fa un lavoro di destra ma che vive la sua vita da uomo di sinistra. Ma non voto a sinistra. Non sono andato neppure al referendum».

Che Guevara o madre Teresa?

«Tutti e due. Mi piace molto scrivere e loro due, con altri personaggi che hanno fatto la storia, li ho messi insieme. Quando si fanno gli interessi del popolo qualche volta si è costretti a farlo con un fucile, oppure con un crocifisso. Madre Teresa è vissuta a lungo, l’altro è morto giovanissimo: le due figure possono coesistere perché quando si fa qualcosa in funzione degli altri si incarnano valori in cui ho sempre creduto. Chiunque opera per il prossimo fa bene. Certamente, se sono in difesa della non violenza in campo figuriamoci fuori. Perciò la via di madre Teresa o Gandhi è davvero più bella, ma nei posti dove stava Che Guevara non potevi fare diversamente per far uscire un popolo dalla dittatura».

Una foto dal calendario rossoblù: a maggio 2017 Morgia alza le mani insieme al team Special Olympics. Il disabile è...

«Per trent’anni ho vissuto con un ragazzo down, mio cognato Paolo per me è stato un grosso insegnamento di vita. Mi ha tirato fuori tante cose, mi ha migliorato, mi ha fatto conoscere un modo di comunicare senza parlare, la sensibilità di un gesto. Quando è morto, io, ricordandolo dall’altare, ho detto: è molto più quello che mi ha dato lui che quello che gli ho dato io. Un grande maestro di vita, mi ha trasmesso cose che professori e gente incravattata non hanno fatto mai. Qui all’Aquila ho trovato un amico, sono stato anche ospite a casa sua. Si chiama Paolo Aquilio, è un grande tifoso. Viene al campo tutti i venerdì, ci ha regalato una mascotte, l’aquilotta che porto con me in panchina e da quel giorno, dopo la sconfitta con l’Arzachena, non abbiamo più perso...»

Morgia sindaco per un giorno da dove comincerebbe?

«Chiederei tutto a Cialente, che ho avuto il piacere di conoscere. Un sanguigno, come me, mi ha convinto. Gli ho scritto un messaggio: non voto da una vita, ma per te lo ridarei. Alla mano, passionale, diretto, non parla politichese».

Luoghi cari all’Aquila.

«Giro poco, a parte il campo. L’emozione me la danno, purtroppo, le macerie, i luoghi toccati da morte e distruzione. Ho visto Onna, la Casa dello studente: terribile e devastante. Le immagini dei ragazzi sono strazianti».

L’aquilano in tre aggettivi.

«Ancora non li ho conosciuti nel tempo, mi sembra troppo riduttivo... Ci sono persone belle, attaccate a valori e princìpi, ma anche chiuse e abbastanza spaventate. Non credo siano sempre state così, molto ha contato l’evento negativo. Mi piacerebbe, tramite il calcio, e non i risultati, riportare un tantino di serenità nell’ambiente. È la cosa più grande che potrei fare».

Dal giovane Sieno al ds juventino Paratici, si può dire che li abbia allenati davvero tutti...

«Tanta gente, è vero. Paratici è quello diventato più famoso, ma è uno dei giocatori meno importanti che ho avuto perché diventato famoso in un altro lavoro. Come calciatore non lo sarebbe mai stato perché non aveva i mezzi, forse ne ha tre volte di più Sieno».

Quando si cambia giro si sentono gli ex?

«Io non cambio, lo cambia chi pensa di essere arrivato in alto. Infatti molti sono una grande delusione, e Paratici è una di queste. Forse la più grande perché abita ormai in un altro mondo, quello opposto al mio. Al contrario, ci sono persone che ho conosciuto dopo, tipo Conte, che invece sono tutt’altro di quello che sembrano, gente veramente perbene che ti risponde, anzi ti invia messaggi e ti chiama. Signori si nasce, c’è qualcuno che signore non è mai nato e si chiamano arricchiti, quelli. La differenza tra i grandi uomini e i piccoli uomini è tutta qua».

Se dico Mps?

«Una banca che ha comprato un’intera città, ha regalato anche un sogno con il basket in serie A, i sei scudetti e le coppe. Diversamente non sarebbero mai arrivati a quei traguardi. Qui torniamo alle cose brutte che ho detto prima, è stato dopato tutto. La dimensione del Siena senza quei soldi non sarà più la stessa. Nessun’altra proprietà potrà arrivare a quello. Lo si potrà fare con un altro tipo di cultura e mentalità. Le banche, poi...lo dite a uno che ha voluto fare sempre il suo lavoro senza compromessi».

Esperienze personali?

«Aprii un negozio di articoli sportivi a Lucca, ed è stato la mia rovina dopo 8 anni perché non sono nato commerciante. Sono fallito, e il calcio mi è servito per mantenermi dopo i disastri fatti con il negozio. E quei disastri sono stati causati dalle banche che mi hanno fatto andare per aria. Io, che pure avevo pagato tutti quanti. Ho conosciuto il meccanismo che fa fallire la povera gente, ma non chi è veramente indebitato. Ho pagato tutte le conseguenze mentali che un fallimento comporta. Mia moglie, da allora, non ha più lavorato. Io ho avuto la possibilità di riscattarmi col mio lavoro sul campo».

Albero o presepe?

«Due cose belle: da ragazzino li facevo ovunque, specialmente il presepe dove ti diverti a costruire. Da qualche anno, però, a casa si fa l’albero».

Torrone o genziana?

«Il torrone devo assaggiarlo, la genziana l’ho provata il primo giorno qui apprezzandone il gusto amaro. Non sono un bevitore, ma la sera va bene un bicchiere di vino e anche l’ammazzacaffè tipico aquilano».

La cosa più strana vista su un campo di calcio?

«Nazionale dilettanti, negli anni Ottanta, a Calcutta contro la rappresentativa indiana. All’apertura di un torneo con 100mila persone allo stadio vincemmo 1-0. All’uscita, una marea di gente. Pensai, come faremo a uscirne? Incredibile: il pullman sfilò tra gli applausi e i sorrisi: ci chiesero gli autografi».

Per L’Aquila l’anno 2017 sarà...

«Mi accorgo che c’è grande ansia di ritornare in una categoria minima per un capoluogo che potrebbe arrivare fino alla B. Ma come qui, 7 anni fa, è successo un terremoto, bisogna dire che ne è successo uno calcistico con la retrocessione e le brutte vicende, la penalizzazione e il resto. Dopo 7 anni vedo e vivo che è stato fatto tanto, vedo le gru in movimento, però il centro storico ancora non esiste, la vita non è ripresa a pieno, tantissima gente è ancora fuori. Noi stiamo lavorando da sei mesi e abbiamo fatto già abbastanza. C’è molto da fare, L’Aquila dobbiamo ricostruirla anche noi. Significa non solo aspirare a vincere il campionato, aspirazione di chiunque fa sport, ma ricostruire, anzi costruire per la prima volta una mentalità. Creare subito le basi per vincere, se ci riusciamo, altrimenti si vince l’anno prossimo. Però, per durare nel tempo e fare passi in avanti, bisogna imparare. Il presidente poteva comprare tutti i migliori del mondo, spendere l’impossibile, poteva anche vincere ma se non vinceva falliva. Oppure, se vinceva, quelli non sarebbero stati adeguati e avrebbe dovuto puntare sempre ai migliori. Non è quello il modo. Cominciamo a riempire lo stadio, cosa che ho visto solo con l’Avezzano... Bisogna portare gente, andrò a dirlo nelle scuole, voglio vedere famiglie, fidanzate, mamme e nonne. Lo stadio nuovo deve diventare quel centro di aggregazione che manca. Così si può ricostruire finalmente un modo diverso di fare calcio all’Aquila, che la porrebbe come modello da seguire. Se la città diventa un simbolo di vita sportiva sarà la più grande vittoria».

Quanto tempo serve?

«Non ho impegni pluriennali, vivo la vita giorno per giorno. E quella da allenatore 90 minuti alla volta, la mia croce e la mia delizia».

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