Roberto Bettega: «Il calcio è cambiato, non facciamo paragoni. L’Abruzzo? Vengo sempre volentieri»

Nostra intervista all’idolo dei tifosi juventini ed ex attaccante della Nazionale azzurra. Un campione che ha segnato un’epoca: sarà a Crecchio (Chieti) per una cena di beneficenza
Un idolo per i tifosi juventini. Un campione che ha segnato un’epoca. Una delle ultime bandiere nel mondo del calcio degli anni Settanta-Ottanta. Roberto Bettega oggi ha 74 anni e si gode una vita all’insegna del calcio, a Torino. Prima attaccante, poi opinionista televisivo, dirigente del club bianconero. E infine manager. Bobby-gol, come veniva chiamato, domani sera sarà a Crecchio, in provincia di Chieti, per una cena di beneficenza organizzata da Anima Bianconera (Juventus Official Fan Club Ortona) presieduta da Diego Solimes. Per anni ha gestito la Juve con Luciano Moggi e Giraudo, formando quella Triade per anni invidiata e temuta e poi spazzata via da Calciopoli nel 2006. Alla vigilia della trasferta abruzzese ha detto la sua su diversi aspetti del mondo del calcio. Con i suoi modi gentili e affabili, ben lontano da ogni polemica.
Buongiorno Bettega, che cosa fa oggi Bobby-gol?
«Oltre al calcio, ha fatto il professionista, ha lavorato anche nel settore della logistica. E adesso ha un attimo di riflessione a livello pubblico».
Il nuovo dg Comolli ha detto che la Juventus andrà avanti con Igor Tudor, che cosa ne pensa?
«Dico che sono decisioni che prendevo a suo tempo. Tanti anni fa. Se le prendessi ancora non saremmo qui a parlare».
Come inquadra il momento della Juve?
«Si è qualificata per la prossima Champions. E questa è la prima cosa che conta. Direi che ci sono margini di miglioramento per quella che è la tradizione del club».
Oggi si diverte a vedere calcio?
«È cambiato, ma non posso pensare di paragonare questa epoca alla nostra. Alla mia. È cambiato tutto, a tutti i livelli. Sarebbe ingeneroso».
Che idea si è fatto della Nazionale?
«Rispecchia il campionato. E le sue difficoltà».
Lei ha avuto un figlio in Abruzzo con la Valle del Giovenco.
«Sì Alessandro, classe 1987, ex centrocampista ha giocato in Abruzzo nel 2009. Oggi fa l’allenatore».
Dove?
«Nel Vanchiglia, una società di grande tradizione. Di Torino».
Quali sono i suoi rapporti con l’Abruzzo?
«Ho giocato da avversario a Pescara. Ho conosciuto tanta gente. E vengo volentieri - invitato da Di Berardino - in una terra bella e in festa, calcisticamente parlando».
Ha visto il Pescara in serie B?
«Sono contento, lo merita. Non si vince per caso. C’è una grossa stagione. Complimenti!».
Domani sarà a Crecchio per una serata benefica, ce ne vorrebbero di più per umanizzare il calcio?
«No, il calcio è umano. Ci sono degli eccessi, per carità, ma io sono convinto che c’è ancora disponibilità per queste iniziative sociali. Ci deve essere. E comunque i giocatori in attività sono talmente impegnati che non hanno tempo per dedicarsi al sociale. Io lo faccio volentieri e con piacere».
Il calcio italiano è di serie A o B?
«Il campionato italiano è diverso dal recente passato. Ha una frequentazione di giocatori stranieri importantissima a livello numerico. Sono cambiate le regole. E, soprattutto, il contesto. Sarò più chiaro: io sono entrato alla Juve che avevo 9 anni e 9 mesi. Non ne sono mai uscito e se sono quello che sono lo devo a un club che mi ha educato anche come uomo. Oggi, mi chiedo, c’è lo stesso tipo di attenzione verso il settore giovanile?».
In chi si rivede oggi Roberto Bettega?
«Difficile dirlo. Io ringrazio mio padre che un sabato pomeriggio del 1960 mi ha portato, a Torino, un provino e sono stato preso dalla Juve. Erano i Pulcini della Juventus. Obbligai papà a portarmi allo stadio quel giorno. Feci di tutto. Ma io non ho mai avuto un procuratore. Il contesto sociale era diverso. Io ho firmato il cartellino a 10 anni e sono stato vincolato alla Juve per tutta la vita. Con grande piacere. Oggi non è così. A 18 anni puoi andare dove vuoi».
Calciatore, dirigente, manager: non si è fatto mancare nulla nella vita.
«Molte cose sono nate con il calcio. Io stavo studiando e mi trovavo alla quarta geometri. Andai a Varese e dopo due giorni mister Liedholm mi ha fatto esordire in prima squadra. Ho dovuto lasciare gli studi, d’intesa con la famiglia. Abbiamo scelto di scommettere sul calcio perché tutti intravedevano in me grosse qualità. Poi, a fine carriera sono andato in Canada per maturare esperienza. E sono stati anni fantastici, in campo e fuori. Ho giocato contro i Cosmos. E ho perso due finali di Soccer ball. Girare, conoscere, vedere aiuta».
La finale di Coppa dei Campioni ad Atene del 1984 persa contro l’Amburgo?
«Vuole mettere il dito nella piaga? Se vuoi vincere devi essere la Juve e quella sera non siamo stati Juve. Nomi sì, ne avevamo tanti in campo quella sera, ma, poi, conta il campo nel calcio. È lì che devi dimostrare. Noi non l’abbiamo fatto. Io in primis, ovviamente».
Ci sono discordanze sulla sua bacheca di trofei.
«È sbagliato quando si dice che io ho vinto sette scudetti, sono 14 contando anche quelli da dirigente e vice presidente, più una Coppa Campioni e una Intercontinentale».
E’ stato uno dei primi calciatori a fare televisione.
«Si sono create delle opportunità e ho sfruttato certe affinità».
Non ha molta voglia di parlare della Juve di oggi.
«Ci sono dei professionisti al lavoro che stanno cercando di fare il meglio per il club al quale sono legato da fede calcistica e affetto. Non conoscendo bene le dinamiche interne è difficile esprimere giudizi. E ve lo dice uno che è stato anche all’interno».
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