Acqua del Gran Sasso a rischio: la procura chiede 10 condanne

Teramo, il maxi processo. I pm: «Un anno e otto mesi per gli ex vertici di Istituto di fisica nucleare, Strada dei Parchi e Ruzzo Reti. Chi aveva l’obbligo di tutelare un bene collettivo lo ha fatto solo con enunciazioni di principio». (Nella foto, i pm Greta Aloisi e Davide Rosati)
TERAMO. Una requisitoria con due capisaldi: il principio di precauzione e la posizione di garanzia. Perché nelle tre ore di requisitoria che ai pm Greta Aloisi e Davide Rosati sono servite per scandire tutto quello che non è stato fatto per mettere in sicurezza l’acquifero del Gran Sasso, i rischi di quello che i consulenti tecnici hanno definito «un condominio impossibile» tra Istituto nazionale di fisica nucleare, Strada dei Parchi e Ruzzo Reti, il “fil rouge” dell’accusa nel maxi processo dell’acqua è stato questo: chi aveva l’obbligo giuridico di tutela non lo ha fatto. O meglio, ha ripetuto la pm Aloisi, «lo ha fatto solo con enunciazioni di principio».
Ma la tutela di un bene che riguarda l’interesse collettivo non si può fare solo a parole e per questo la Procura ha chiesto condanne a un anno e 8 mesi e 40mila euro di multa ciascuno per i dieci imputati, tra gli ex vertici dell’Istituto di fisica nucleare, Strada dei Parchi e Ruzzo Reti. Si tratta di Fernando Ferroni, all’epoca dei fatti presidente dell’Istituto di fisica nucleare; Stefano Ragazzi, all’epoca dei fatti direttore dei laboratori nazionali dell’Istituto di fisica nucleare; Raffaele Adinolfi Falcone, all’epoca dei fatti responsabile del servizio ambiente dei laboratori dall’ottobre del 2005; Lelio Scopa, all’epoca dei fatti presidente del consiglio di amministrazione della Strada dei Parchi; Cesare Ramadori, all’epoca dei fatti amministratore delegato di Strada dei Parchi dal 30 maggio del 2011; Igino Lai, all’epoca direttore generale di esercizio di Strada dei Parchi con compiti in materia di tutela dell’ambiente dal 2011; Antonio Forlini, ex presidente di Ruzzo Reti; Domenico Giambuzzi, all’epoca dei fatti responsabile dell’area tecnica della Ruzzo Reti; Ezio Napolitani, all’epoca responsabile dell’unità operativa di esercizio della Ruzzo Reti; e Maurizio Faragalli, responsabile del Servizio acquedotto della Ruzzo Reti dal 17 gennaio 2014.
Il processo è quello che nasce dall’inchiesta aperta nel 2017 quando scoppiò l’emergenza legata a una problema di potabilità dell’acqua il cui uso venne bloccato per giorni in 32 Comuni del Teramano. Oggi, dopo 6 anni dalla prima udienza passata da un giudice all’altro e con un lungo stop per il Covid, l’ipotesi di reato che resiste alla prescrizione – che falcidia gli altri capi sempre del testo unico ambientale e tutti di natura contravvenzionale – è il pericolo di compromissione o deterioramento delle acque. Per la responsabilità amministrativa degli enti la Procura chiede 500 quote e 200mila euro per Strada dei Parchi e 400 quote e 160mila euro per Ruzzo Reti. Un contesto, quello ipotizzato dall’autorità giudiziaria (titolare dell’inchiesta, insieme a Rosati e Aloisi, il pm Stefano Giovagnoni), in cui sono emerse interferenze tra i laboratori, le gallerie autostradali e il sistema di conduttura delle acque con criticità mai sanate. In particolare, hanno sostenuto i pm, un pericolo permanente per la salubrità delle acque a causa di un inadeguato isolamento delle opere di captazione e convogliamento di quelle destinate a uso potabile «Fino all’intervento dell’autorità giudiziaria», hanno aggiunto i pm, «la salvaguardia dell’acquifero è stata affidata a uno scambio di comunicazioni e basta.
Chi avrebbe potuto intervenire con attive misure, anzi avrebbe dovuto ognuno per la sua posizione di responsabilità, ha colposamente omesso di intervenire». Si torna in aula il 13, il 14 e il 15 ottobre con le arringhe dei difensori e la sentenza della giudice Claudia Di Valerio.
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