Il tribunale non traduce gli atti libero un condannato per rapina

Cittadino cinese deve scontare otto anni ma la sentenza gli viene notificata solo in italiano Il suo difensore fa ricorso perché è stata violata la convenzione europea, i giudici lo scarcerano

TERAMO. In primo grado i giudici gli hanno inflitto otto anni per rapina e sequestro di persona . Una sentenza che a lui, cittadino cinese contumace nel processo, nessuno ha comunicato nella sua lingua. Zeng Mingjiang, 32 anni, non parla nemmeno una parola d’italiano e così, quando gli hanno notificato l’estratto della sentenza , non ha capito cosa fosse e che aveva un tempo per fare appello. Non lo ha fatto: la condanna è diventata esecutiva e lui è stato arrestato. E’ rimasto in carcere un mese fino a che il suo avvocato Vincenzo Di Nanna ha fatto ricorso e i giudici hanno disposto l’immediata scarcerazione dell’uomo, facendo riferimento alla convenzione europea sui diritti dell’uomo. Perchè ogni Stato deve tutelare i diritti di tutti. «Ritenendo che è un diritto dell’imputato anche ai sensi dell’articolo 6 della convenzione europea», si legge nel provvedimento redatto dal collegio (presidente Giovanni Spinosa, a latere Roberto Veneziano e Carla Fazzini), «conoscere gli atti del processo nella lingua nota allo stesso, dichiara la nullità dell’estratto per omessa traduzione dello stesso nella lingua nota all’imputato, dichiara altresì la nullità degli atti conseguenti compreso l’ordine di carcerazione emesso e ordina l’immediata scarcerazione dell’imputato se non detenuto per altro». Il riferimento è all’articolo 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà secondo cui «ogni accusato ha diritto ad essere informato nel più breve spazio di tempo, nella lingua che egli comprende e in maniera dettagliata della natura e dei motivi dell’accusa a lui rivolta». Che non sono principi buonisti, ma norme che garantiscono, o almeno dovrebbero, diritti inviolabili. Come quello di ogni cittadino a difendersi. Un provvedimento che per l’uomo riapre i termini per fare appello. Appelllo che il difensore Vincenzo Di Nanna ha già presentato perchè scrive «nel merito il giudizio di condanna è basato su alcuni indizi che non rivestono certo quei caratteri di gravità, precisione e concordanza imposti dal codice di procedura. Ammessa (per assurdo) l’esistenza di una banda di rapinatori cinesi e ritenuta provata (per assurdo) la stabile partecipazione dell’imputato alla banda, in alcun modo risulta dimostrato il concorso dello stesso ai singoli episodi delittuosi commessi dalla banda». Nell’abitazione dell’uomo, all’epoca, vennero ritrovati dei coltelli, dello stesso tipo di quelli usati durante le rapine. «Le premesse della condanna poggiano dunque su un falso (e pericoloso) sillogismo», si legge nel ricorso in appello, «anche ove si ritenga provato ciò che è stato affermato sulla base di sospetti e presunzioni. Non possono poi ritenersi uniche ed esclusive le armi utilizzate molto comuni proprio tra la popolazione cinese». (d.p.)

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