In fuga dalle nozze combinate: a 17 anni denuncia i genitori. Testimonianza choc nel tribunale di Teramo

Madre e padre del Bangladesh vanno a processo per induzione al matrimonio con inganno. La ragazza da poco diventata maggiorenne viveva coi familiari in un paese del Teramano. Da nove mesi è in comunità protetta su disposizione dell’autorità giudiziaria
TERAMO. Il suo nome aleggia nell’aula di tribunale. Invisibile ma così concreto da far paura. Perché qualunque sarà l’epilogo processuale di questa storia, il prologo non può che essere nel ricordo di Saman Abbas, la 18enne pakistana uccisa nel Reggiano dai familiari per essersi opposta a un matrimonio combinato. E nei giorni in cui le motivazioni della sentenza di condanna di secondo grado riaccendono i riflettori sul caso diventato mondiale, in un’aula del tribunale di Teramo c’è una ragazza che racconta la fuga da un possibile matrimonio combinato in Bangladesh sua terra d’origine e ci sono un papà e una mamma imputati per il reato di tentata induzione al matrimonio mediante l’inganno (l’articolo 558 del codice penale). Davanti alla giudice monocratica Martina Pollera, la giovane da poco 18enne e ancora ospite in una comunità protetta dopo la denuncia dei genitori, racconta il suo essere «decisa a vivere la mia vita con libertà, a studiare per avere un lavoro». Il suo ribellarsi «a una cultura che non mi appartiene». La sua paura «di non farcela» e quel giorno «dell’11 luglio del 2024 in cui ho tolto il velo». Nel mezzo quel ragazzo connazionale conosciuto sui social diventato «il mio fidanzato», il no del papà «perché non voleva perdere il rispetto, perché per la nostra cultura è la famiglia che sceglie il marito», la paura «di essere mandata in Bangladesh per farmi sposare». Fino allo sfogo con una insegnante della scuola che ha capito la necessità di intervenire subito. Così una sera lei non è tornata a casa, è andata in una comunità protetta mentre un fascicolo giudiziario cominciava a prendere forma per raccontare questa storia in un’aula di tribunale. Solo successivamente lei ha ripreso a vedere i genitori con incontri protetti alla presenza di psicologi e assistenti sociali: «Ora piano piano li vedo sempre più spesso e da qualche mese anche senza incontri protetti. Forse sono cambiati».
IL TELEFONO SEQUESTRATO e LE FOTO IN BANGLADESH È una lunga audizione quella che la ragazza mette in fila in tribunale incalzata dalle domande della pm Enrica Medori (titolare del fascicolo) che ha chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio per i due genitori al termine di una lunga e complessa indagine. Perché mai come questa volta i ricettori del territorio (a cominciare dalla scuola) sono stati in grado di allertare una risposta integrata, di far sentire meno sola che denuncia. E così lei racconta: «Vado a scuola, frequento un istituto alberghiero e mi piace studiare. Viviamo in un paese del Teramano da tantissimi anni, mio padre lavora e mia madre si occupa della famiglia. Qualche anno fa su Instagram ho conosciuto un ragazzo, un connazionale che come me vive in Italia. Ci siamo innamorati e messi insieme. Da lì è cominciato tutto. I miei si sono accorti e mi hanno tolto il telefono cellulare perché non volevano che ci sentissimo. Mio padre si è arrabbiato molto perché nella nostra cultura è il papà che sceglie il fidanzato altrimenti perde il rispetto degli altri. Ho cominciato ad avere paura che potessero mandarmi in Bangladesh da alcuni parenti di mia madre che vivono lì e con cui in alcune occasioni soprattutto mia madre si è sentita per raccontare quello sta succedendo». E ancora: «Ho avuto molta paura quando ho sentito mia madre che parlava con sua sorella in Bangladesh e le diceva che bisogna trovare un marito lì. L’ho sentita dire che mi avrebbe fatto fare delle foto senza velo che poi le avrebbe inviato. A quel punto per il grande timore ho anche cancellato delle foto mie dal suo cellulare».
IL RACCONTO ALL’INSEGNANTE e la scelta della comunità La ragazza continua ad andare a scuola, ma il suo profitto cala e questo non passa inosservato. Soprattutto a un bravo insegnante, uno di quelli che va oltre orari e progetti ministeriali. Racconta in aula la giovane rispondendo a una domanda della giudice: «In quei giorni avevo molto paura e per questo ero triste, diversa dal solito. Una mia insegnante si è accorta di qualcosa e un giorno mi ha invitato a parlare, a raccontarle quello che mi angosciava. Mi sono sentita libera di parlare con lei e lo confidato la mia paura. Mi ha detto che mi avrebbe aiutato, di cercare di stare tranquilla. La sera sono tornata a casa e in quell’occasione volevo parlare con mio padre, capire se aveva in mente qualcosa per mandarmi in Bangladesh. Ma l’ho visto molto arrabbiato e ho avuto ancora di più paura. Così la mattina dopo sono andata a scuola, ho parlato ancora con la mia insegnante e non sono più tornata a casa. La mia insegnante ha fatto scattare la denuncia e da quel momento sono stata portata in una comunità fuori regione in cui sono rimasta 9 mesi. Oggi sono ospite di una comunità in Abruzzo e ho ripreso a vedere i miei. Ho un altro ragazzo, un connazionale sempre conosciuto sui social. Ci vogliamo bene. I miei lo sanno? Si, ora lo sanno». Si torna in aula a fine ottobre con i primi testi citati dalla Pubblica accusa.
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