Martina, infermiera teramana per 35 giorni nell’orrore a Gaza: «Sei dentro un inferno, non ci sono luoghi sicuri»

8 Settembre 2025

La volontaria di Medici senza frontiere ha lavorato in un ospedale «La giornata cominciava già con 12-13 bambini da amputare»

TERAMO. «A Gaza hai la percezione di essere dentro l’inferno: attacchi da terra, da mare, da aria; tutti cercano un rifugio, non ci sono zone sicure, non c’è un luogo dove potersi riparare, nemmeno gli ospedali. E si muore ogni giorno di guerra, di fame, di inaccessibilità alle cure. Sento ancora rimbombarmi nelle orecchie il rumore penetrante dei droni, ma gli occhi pieni di dignità e di accoglienza, nonostante il dolore, della popolazione locale mi hanno riempito il cuore e mi hanno insegnato cosa sono l’umanità e il valore della pace». Lo sguardo di Martina Paesani è commosso come se fosse ancora nell’ospedale di Al-Aqsa pieno di bambini mutilati. E le parole, a tratti decise, a tratti spezzate, provano a raccontare quello che definisce «un dramma troppo grande, chi non lo vive non può capire fino in fondo».

LE MISSIONI DI MARTINA

Un dramma che la 47enne teramana Martina, caposala nell’ospedale di Teramo e operatrice umanitaria dal 2010 di Medici senza frontiere, l’unica nella provincia, ha toccato con mano prima nelle sue missioni di guerra in Yemen e Siria e poi, nel 2024, nella Striscia di Gaza, dove dal 7 ottobre 2023 si stanno consumando una strage di civili e un’emergenza umanitaria senza precedenti. Martina ha svolto anche una missione di pace di sei mesi in India, ma le cinque settimane a Gaza sono state l’esperienza più forte perché, evidenzia, «le guerre sono diverse e hanno regole differenti, ma lì, purtroppo, siamo in una guerra senza regole». Il sogno di fare l’infermiera, il percorso di studi, le esperienze in sala operatoria e ora al 118 e quella necessità, che sente come una missione, «di portare la presenza di una parte del mondo che non si volta dall’altra parte dinanzi agli orrori della guerra e alla privazione dei diritti legittimi, ma riconosce e rispetta il dolore di essere umani cercando di fare qualcosa di concreto, ognuno per la propria competenza». Lei e i suoi colleghi di Msf calcano gli scenari di guerra in punta di piedi, portando esperienza e solidarietà «alle persone che sono vittime innocenti ed estranee alle dinamiche belliche, trovando il coraggio nel rifiuto di ciò che è fortemente ingiusto per far posto all’azione: è un privilegio dare un segnale di non indifferenza». Quello che ti restituisce una missione umanitaria, per Paesani, è di gran lunga superiore a quello che un operatore dà perché «ti senti nel posto giusto, parte di una comunità che è una grande famiglia che condivide il dolore, non si rassegna, non si sente vittima, non si abbandona alla disperazione, ma dove ci si prende cura l’uno dell’altro. Respiri umanità, dignità, rispetto, vicinanza, valori talmente alti che spazzano l’aria di morte che si respira ovunque e ti donano una ricchezza interiore che non ha eguali. Ho scelto Medici senza frontiere», aggiunge, «per la neutralità, l’indipendenza e l’universalità dell’assistenza sanitaria». Paesani racconta dell’ospedale attrezzato a Mon, tra l’India e la Birmania, nel quale ha insegnato ai sanitari locali a utilizzare gli strumenti della sala operatoria per fornire cure «a persone povere delle montagne che però non perdono mai il sorriso». Poi delle missioni di guerra in Yemen e Siria, «un contesto bellico doloroso, ma ben delineato, dove gli attacchi avvenivano in zone determinate ed erano segnalati dalle sirene, dove c’erano i bunker per ripararsi, dove gli aiuti umanitari arrivavano: tutto quello che non accade a Gaza, dove non c’è protezione dei deboli».

L’ORRORE DI GAZA

La situazione di Gaza Martina la racconta così: «Gli assalti avvengono a tappeto, gli allarmi non esistono e arrivano rari ordini di evacuazione, la presenza dei droni con il loro rumore è un’ossessione e colpiscono di continuo. Se nasci in quel fazzoletto di terra di pochi metri quadrati e un’altissima densità abitativa, sei sequestrato e non vedi il futuro». Il pensiero di Martina è ai giorni trascorsi nell’ospedale di Al-Aqsa, dove ha vissuto in uno spazio ristretto con altri quattro operatori dello staff internazionale e trenta operatori sanitari dello staff nazionale palestinese. «Abbiamo dormito nei sacchi a pelo e la nostra giornata iniziava con già 12/13 bambini da amputare», dice con voce rotta, «l’ospedale era pieno di bambini e donne e spesso le mamme che hanno perso i figli si prendono cura degli orfani con una generosità disarmante. Le strumentazioni e i farmaci rimangono sovente fermi ai valichi come accaduto dal marzo al maggio scorsi e cerchi di fare quello che puoi con quello che hai, ma la capacità di assistenza diminuisce e il concetto di cura cambia: non è solo medicazione, ma è riconoscere la tragedia immane che si sta consumando». Martina riferisce, secondo i dati delle Nazioni Unite, che a Gaza sono morte 61mila persone, 16mila bambini, 12 operatori di Medici senza frontiere e più di 1.300 operatori sanitari locali. Prima del 7 ottobre erano stati attrezzati 36 ospedali e ora solo 15 sono parzialmente attivi perché evacuati e bombardati. «C’è una violenza massiccia su chiunque e le vittime, anche per l’alta densità abitativa, sono intere comunità», continua, «in ospedale i pazienti sono i feriti e gli ustionati da bombe, crolli, esplosioni; i malati di altre patologie vengono abbandonati a loro stessi. Ma a Gaza si muore anche di fame e di sete perché mancano cibo e acqua e si muore negli attacchi armati ai punti di distribuzione degli aiuti, che diventano trappole mortali dove si spara e si bombarda a caso». Martina rivela che con la testa e il cuore è sempre con il popolo palestinese, i Gazawi, e quando le persone con cui è rimasta in contatto non le rispondono ai messaggi per giorni e giorni la assale il terrore che sia accaduto il peggio. «Tantissimi amici sono morti, come il papà dello psicologo dell’ospedale che è stato freddato da un cecchino, ma i Gazawi hanno una dignità unica: non sono animati dalla rabbia e dall’astio verso Israele, ma dalla forza di aiutarsi e aiutare. In ospedale avevamo un bisogno urgente di stampelle per gli amputati che erano ferme ai valichi, uno strumento per camminare, quindi anche per poter scappare in caso ci si accorga di un attacco imminente. Un paziente di professione falegname ne ha realizzate a mano 50 paia in legno e le ha distribuite».

IL DESIDERIO DI RIPARTIRE

Il suo desiderio è quello di ripartire in missione, proprio a Gaza, e che tutto questo finisca presto. «Per me», conclude Martina Paesani, «è un privilegio portare il mio aiuto perché lì non mi sono mai sentita sola. Ciò che regna, invece, nella nostra società è una solitudine incredibile, non siamo più abituati ad aiutarci, abbiamo tutto, ma viviamo nella tristezza e in una continua guerra interiore».

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