Archistar in mostra
Frank O.Gehry alla Triennale di Milano, Zaha Hadid a Padova.
Quando alla metà degli anni Ottanta nelle facoltà di architettura italiane si affacciavano, timidi, i primi ammiratori di Frank O. Gehry, piuttosto che di Peter Eisenman, la cultura dominante, e che stava diventando una sorta di accademia, era la Tendenza. Lo era certamente nella facoltà di architettura di Pescara. Qui avevano insegnato Aldo Rossi e Giorgio Grassi. Il primo, autore dell’«Architettura della città», un libro studiato in tutte le facoltà di architettura italiane e non. Il secondo, che aveva già lavorato per la rivista Casabella-continuità, diretta da Ernesto Natan Rogers, insieme allo stesso Aldo Rossi, Vittorio Gregotti e Gae Aulenti, interessato allo studio dei fenomeni urbani. Insieme a Rossi e Grassi un gruppo di architetti, per lo più milanesi, si era imposto all’attenzione generale della critica anche perché stava costruendo una scuola, tutta italiana che s’interrogava sul rapporto tra l’architettura e la città, sulla tipologia architettonica e, proprio perché scuola in essere, sulla trasmissibilità dell’insegnamento dell’architettura.
Gli altri erano i decostruttivisti, Frank O. Gehry, Zaha Hadid, lo stesso Peter Eisenman, Rem Koolhaas, Bernard Tschumi, Daniel Libeskind e il gruppo Coop Himmelb(l)au. Il termine Deconstructivist Architecture era stato universalmente adottato dopo la mostra di Philip Johnson a New York nel 1988, che tenne a battesimo la nouvelle vague dell’architettura mondiale. I primi sono ancora oggi studiati nelle università, i secondi sono diventati Archistar. Al progettista del Guggenheim Museum di Bilbao, Frank O. Gehry, la Triennale di Milano dedica uno spazio significativo perché, come scrive Germano Celant nell’introduzione al catalogo della mostra, «Un’esposizione sull’opera di Frank O. Gehry è un evento di significato mondiale in qualsiasi momento e circostanza (...) questa è la prima antologica che, attraverso modelli e documenti, disegni e video, nonché contributi tecnologici, copre in maniera sistematica l’intera produzione dal 1997 al 2009».
E la mostra - inaugurata il 27 settembre resterà aperta fino al 10 gennaio 2010 - non tradisce le aspettative (per informazioni tel. +39 02 724341 www.triennale.it). Un susseguirsi di spazi che contengono progetti, plastici, schizzi a matita grossa sui muri. Una sorta di atelier a disposizione di ognuno. I plastici sono al centro delle singole stanze. Gli schizzi più grandi campeggiano sulle pareti. Altri, provenienti da collezioni private, sono incorniciati e autografati. Tanti plastici. Modelli di studio. Colorati. Di carta. Di balsa. Di cartone. Le lamiere di titanio che ricoprono gli edifici di Gehry sono carta in questi plastici; carta appallottolata che lo stesso Gehry lancia ai ragazzi dello studio chiedendo di trasformare quelle intenzioni, quei gesti, in spazi. Sequenze spezzate che cercano una forma. Sequenze dove, cercando, si riesce a leggere la volontà dell’architetto. «Volevo riprodurre tutti i significati della parola trasparenza», scrive Frank O. Gehry; un tentativo riuscito.
La sua idea di architettura è più superficie che spazio, più rivestimento che struttura connettiva. Si possono condividere o meno le architetture, l’architettura di Frank O. Gehry, ma la mostra che gli dedica la Triennale di Milano è un momento di conoscenza e di formazione imprescindibile, per chi ha a cuore le sorti della città. E’ invece l’edificio più rappresentativo di Padova, il bellissimo Palazzo della Ragione, che esibisce la mostra personale di Zaha Hadid, ospite d’onore della quarta edizione della Biennale Internazionale di Architettura Barbara Cappochin. La mostra inaugurata il 27 ottobre 2009 resterà aperta fino al 1 marzo 2010 (per informazioni e prenotazioni tel. +39 049 2010121 www.bcbiennial.info). Zaha Hadid, prima donna a vincere l’equivalente del premio Nobel per l’architettura, il Premio Pritzker nel 2004, è l’architetto che ha realizzato il MAXXI di Roma, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, che sarà aperto al pubblico la prossima primavera.
Un unico grande spazio, il salone medievale del piano superiore del palazzo realizzato tra il 1172 e il 1219 e affrescato da Giotto, contiene l’installazione/mostra che lo studio londinese di Zaha Hadid ha pensato e realizzato per questa occasione. Ed è una bella sfida tra la sala pensile medievale, costruita senza il supporto di colonne di appoggio, ancora oggi una delle più grandi di Europa, e le macchine per abitare dell’architetto e designer irachena naturalizzata britannica, che sfidano anch’esse le leggi della fisica. L’allestimento/mostra è in realtà un’opera d’arte tra tante opere d’arte. Si resta attoniti per lo stupore quando si oltrepassa la soglia che separa l’esterno, la grande balconata con le volte affrescate, dall’interno, il salone. Il contrasto tra le opere dipinte sulle pareti, tra la sala stessa, la sua dimensione e le opere esposte, emoziona e toglie il respiro. il concetto di contemporaneità che sembra materializzarsi sotto i nostri occhi.
E’ il passaggio dalle immagini colorate e chiassose del mercato della frutta e verdura di Padova all’atmosfera rarefatta delle strutture bianche e modulari che supportano i disegni e le architetture di Zaha Hadid, che da solo vale il prezzo del biglietto. Cogliere poi il senso del posizionamento dei progetti è già entrare nelle corde dell’architettura di Hadid. Sono oggetti, in qualche caso opere d’arte, che non si relazionano ai luoghi per cui sono costruiti. Ne fanno volentieri a meno. Lo “sciame” che costituisce l’ossatura della mostra assume nomi che sono anch’essi un programma: linee/fasci/reti, onde/gusci/bozzoli, aggregazioni/grappoli/puzzle, campi/sciami, paesaggio/topografia, parametricismo. Le due mostre, quella dedicata a Frank O. Gehry e quella dedicata a Zaha Hadid, sembrano essere in sintonia e rafforzare il significato del termine coniato proprio per loro, da Gabriella Lo Ricco e Silvana Micheli, Archistar.
Architetti che hanno costruito la loro fortuna utilizzando, alla stessa stregua degli stilisti di moda, le forme in un gioco autoreferenziale. Ed è paradossale che proprio oggi che l’architettura sembra essere oggetto di attenzione da parte di tanti, abbia perduto la sua funzione sociale e dimenticato il significato del termine “collettivo”. Manca cioè la dimensione pubblica dell’architettura. La grande assente è la città, In questi disegni le architetture, costruite o disegnate, sembrano farne volentieri a meno. Architetture che assecondano e rappresentano la società liquida che abitiamo, e che per loro nuova natura accettano la transitorietà come paradigma della felicità.
Gli altri erano i decostruttivisti, Frank O. Gehry, Zaha Hadid, lo stesso Peter Eisenman, Rem Koolhaas, Bernard Tschumi, Daniel Libeskind e il gruppo Coop Himmelb(l)au. Il termine Deconstructivist Architecture era stato universalmente adottato dopo la mostra di Philip Johnson a New York nel 1988, che tenne a battesimo la nouvelle vague dell’architettura mondiale. I primi sono ancora oggi studiati nelle università, i secondi sono diventati Archistar. Al progettista del Guggenheim Museum di Bilbao, Frank O. Gehry, la Triennale di Milano dedica uno spazio significativo perché, come scrive Germano Celant nell’introduzione al catalogo della mostra, «Un’esposizione sull’opera di Frank O. Gehry è un evento di significato mondiale in qualsiasi momento e circostanza (...) questa è la prima antologica che, attraverso modelli e documenti, disegni e video, nonché contributi tecnologici, copre in maniera sistematica l’intera produzione dal 1997 al 2009».
E la mostra - inaugurata il 27 settembre resterà aperta fino al 10 gennaio 2010 - non tradisce le aspettative (per informazioni tel. +39 02 724341 www.triennale.it). Un susseguirsi di spazi che contengono progetti, plastici, schizzi a matita grossa sui muri. Una sorta di atelier a disposizione di ognuno. I plastici sono al centro delle singole stanze. Gli schizzi più grandi campeggiano sulle pareti. Altri, provenienti da collezioni private, sono incorniciati e autografati. Tanti plastici. Modelli di studio. Colorati. Di carta. Di balsa. Di cartone. Le lamiere di titanio che ricoprono gli edifici di Gehry sono carta in questi plastici; carta appallottolata che lo stesso Gehry lancia ai ragazzi dello studio chiedendo di trasformare quelle intenzioni, quei gesti, in spazi. Sequenze spezzate che cercano una forma. Sequenze dove, cercando, si riesce a leggere la volontà dell’architetto. «Volevo riprodurre tutti i significati della parola trasparenza», scrive Frank O. Gehry; un tentativo riuscito.
La sua idea di architettura è più superficie che spazio, più rivestimento che struttura connettiva. Si possono condividere o meno le architetture, l’architettura di Frank O. Gehry, ma la mostra che gli dedica la Triennale di Milano è un momento di conoscenza e di formazione imprescindibile, per chi ha a cuore le sorti della città. E’ invece l’edificio più rappresentativo di Padova, il bellissimo Palazzo della Ragione, che esibisce la mostra personale di Zaha Hadid, ospite d’onore della quarta edizione della Biennale Internazionale di Architettura Barbara Cappochin. La mostra inaugurata il 27 ottobre 2009 resterà aperta fino al 1 marzo 2010 (per informazioni e prenotazioni tel. +39 049 2010121 www.bcbiennial.info). Zaha Hadid, prima donna a vincere l’equivalente del premio Nobel per l’architettura, il Premio Pritzker nel 2004, è l’architetto che ha realizzato il MAXXI di Roma, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, che sarà aperto al pubblico la prossima primavera.
Un unico grande spazio, il salone medievale del piano superiore del palazzo realizzato tra il 1172 e il 1219 e affrescato da Giotto, contiene l’installazione/mostra che lo studio londinese di Zaha Hadid ha pensato e realizzato per questa occasione. Ed è una bella sfida tra la sala pensile medievale, costruita senza il supporto di colonne di appoggio, ancora oggi una delle più grandi di Europa, e le macchine per abitare dell’architetto e designer irachena naturalizzata britannica, che sfidano anch’esse le leggi della fisica. L’allestimento/mostra è in realtà un’opera d’arte tra tante opere d’arte. Si resta attoniti per lo stupore quando si oltrepassa la soglia che separa l’esterno, la grande balconata con le volte affrescate, dall’interno, il salone. Il contrasto tra le opere dipinte sulle pareti, tra la sala stessa, la sua dimensione e le opere esposte, emoziona e toglie il respiro. il concetto di contemporaneità che sembra materializzarsi sotto i nostri occhi.
E’ il passaggio dalle immagini colorate e chiassose del mercato della frutta e verdura di Padova all’atmosfera rarefatta delle strutture bianche e modulari che supportano i disegni e le architetture di Zaha Hadid, che da solo vale il prezzo del biglietto. Cogliere poi il senso del posizionamento dei progetti è già entrare nelle corde dell’architettura di Hadid. Sono oggetti, in qualche caso opere d’arte, che non si relazionano ai luoghi per cui sono costruiti. Ne fanno volentieri a meno. Lo “sciame” che costituisce l’ossatura della mostra assume nomi che sono anch’essi un programma: linee/fasci/reti, onde/gusci/bozzoli, aggregazioni/grappoli/puzzle, campi/sciami, paesaggio/topografia, parametricismo. Le due mostre, quella dedicata a Frank O. Gehry e quella dedicata a Zaha Hadid, sembrano essere in sintonia e rafforzare il significato del termine coniato proprio per loro, da Gabriella Lo Ricco e Silvana Micheli, Archistar.
Architetti che hanno costruito la loro fortuna utilizzando, alla stessa stregua degli stilisti di moda, le forme in un gioco autoreferenziale. Ed è paradossale che proprio oggi che l’architettura sembra essere oggetto di attenzione da parte di tanti, abbia perduto la sua funzione sociale e dimenticato il significato del termine “collettivo”. Manca cioè la dimensione pubblica dell’architettura. La grande assente è la città, In questi disegni le architetture, costruite o disegnate, sembrano farne volentieri a meno. Architetture che assecondano e rappresentano la società liquida che abitiamo, e che per loro nuova natura accettano la transitorietà come paradigma della felicità.