Ben Pastor

Bisenti, oh cara paese scritto sul mondo

Zanzibar, Ulan Bator e San Pietroburgo non ecciterebbero la fantasia senza i loro favolosi toponimi

A Donna Giuseppina Ranalli Volpi, in memoriam Je suis l’espace où je suis (Sono lo spazio in cui sono) Noèl Arnaud Ogni paese è scritto sul mondo, e può essere letto. Maiuscole, minuscole, tratti, puntini, accenti, svolazzi, la spigolosità o l’eleganza delle lettere che compongono il nome di un luogo, ne definiscono la natura non meno delle sue caratteristiche fisiche, tanto quanto si dice lo stile della grafia indica le peculiarità del carattere personale.

Zanzibar e Ulan Bator, Yosemite e San Pietroburgo non ecciterebbero la fantasia né sarebbero quel che sono senza i loro favolosi toponimi. Ma un grande luogo impone una vasta lettura. Se è arduo definire e comprendere la psicologia geografica di un’intera nazione, già le regioni individuali permettono un’interpretazione meno elusiva. Riconosciamo le colline senesi o la costa dei trabocchi al primo sguardo: perché? Le prime non sono le uniche a possedere curve aggraziate e nobili filari di cipressi, né la seconda è la sola con aspri speroni di roccia che emergono dalla spiaggia. qualcosa di più impalpabile, una qualità delle linee, dei colori, del gioco di luci e ombre, una gestalt unica a quel luogo, che si fissa nella mente ancor prima che nello sguardo. Esistono una calligrafia e una grafologia dei luoghi.

Le città e i paesi, poi, terra modificata dall’uomo, sono ancora più “leggibili” come espressioni distinte. Le riconosciamo quasi fossero una calligrafia nota, come le linee sul palmo di quella mano immensa che è il mondo. Bisenti è il paese dei miei, un angolo del Teramano a fondo valle, tra due ponti e due colli che si fronteggiano a vicenda, su un greto il cui flusso d’acqua è così esiguo da dare il nome al fiume: Fino. Ha due piazze, e due alte costruzioni: torre e campanile.

La sua dualità esiste anche nel nome, che comincia con bis. Due, dunque. Questa reiterazione vuole pur dire qualcosa: suggerisce le metà di un gheriglio di noce, le ali di una rondine, il giogo che accoppia i buoi mansueti. Raffiguriamoci Bisenti scritto in corsivo, con il ricciolo barocco della B a rappresentare la chiesa. La s sta per il fiume, i cui meandri non sono mai velati da abbastanza acqua per riflettere il cielo; la t è la croce sul campanile, illuminato di notte da una corona di lucette che la rendono la coffa di una nave veleggiante col fuoco di Sant’Elmo a guidarla.

E poiché il nome non finisce - come così spesso in Italia - in a od o, quel puntino sulla i finale impone una sosta, un completamento al tutto, per piccolo che sia. Sì, perché ci sono una via d’entrata e una d’uscita soltanto: che sicurezza in questo dualismo che non confonde con eccesso di scelte! un gomitolo che si annoda e dipana; tirandone i capi l’intero agglomerato di case si svolgerebbe e aprirebbe come una collana, occupando molto più terreno lungo una linea retta.

Ma Bisenti, come tutti i vecchi paesi, occupa poco spazio, dimostra una riservatezza non avara nel modo in cui stradine e vicoli si ripiegano e si chiudono ad anello, per offrire a chi ci vive quanto più margine agibile nel minimo di superficie. Chi vi torna ne è più geloso di chi è rimasto a viverci; e non ama i cambiamenti, sia pure necessari. Ammodernamenti, nuove costruzioni contraddicono la memoria, che, si sa, vorrebbe mantenere nel tempo una sua forma immutabile.

Così, paradossalmente, un luogo diventa duplice: c’è quello intimo della mente, inalterato, e quello esterno che muta, cresce o decade nella cosiddetta realtà. Forse l’immagine nel ricordo è il corrispettivo di quella che si definisce “anima” nell’uomo. L’immaginazione, è vero, contiene spazi potenzialmente infiniti: ipotizziamo deserti e galassie, oceani e universi con la stessa facilità con cui pensiamo la punta di un ago o la bava di un ragno.

Eppure nell’esperienza quotidiana di chi vi è sempre vissuto, o in quella riflessa di chi ne è partito da anni, un piccolo paese tra due ponti, due colli, con due alti edifici, vanta più spazio immaginario di una convulsa metropoli estranea, di interi continenti ignoti. Il tuo paese scritto è una forma calligrafica conosciuta e cara, capace di lievitare nel cuore fino a divenire tutta maiuscola. Gaston Bachelard, filosofo che cominciò la carriera come postino e forse per questo divenne cantore di luoghi, scrive: La miniatura, una porta stretta, si aprono su un mondo intero La miniatura è uno dei rifugi della grandezza.

Interpretando siti e spazi interni come diagrammi psicologici, ci insegna a “leggere” case, angoli, cassetti, conchiglie, nidi d’uccello come contenitori della fantasia. Così il giardino della casa dei miei nonni, con gli abeti piantati alla nascita dei due maschi di famiglia, la piccola selva di bambù, le siepi riverse, i colombi nei buchi delle travi, è da tempo divenuto un giardino segreto della memoria, sovrapposto al poco che rimane del suo antico aspetto.

E la casa? Porta, scala, ringhiera, mattonelle, la modanatura aggiunta alla facciata nel 1918, anno della vittoria, sono per me un segno, una delle lettere che compongono il nome di Bisenti. Dalla cascina creduta di Ponzio Pilato al mattatoio abbandonato, dalla cappella delle epidemie al cimitero che doveva essere rimosso e non lo fu mai, il paese è scritto. Il fontanile, la canonica del prete, il bar, il municipio, il minuscolo parco con la voliera vuota, i cani di strada che non sono randagi perché sono di tutti, il sole che calcina gli intonaci d’estate, la nebbia che fascia il fiume d’autunno, le nevicate che schiantano i coppi in inverno, la furia rumorosa dei rondoni a primavera: segni che esistono e sono leggibili altrove nel mondo, eppure acquistano qui unicità di significato.

Rainer Maria Rilke lamenta: O nostalgia dei luoghi che non furono / cari abbastanza nell’attimo fugace / come vorrei rendervi da lontano / l’atto dovuto, il gesto dimenticato... ...A volte il gesto è quello di prendere in mano una penna, e scrivere, lettera per lettera, assaporandolo, il nome del proprio paese.