Primo Levi: questo è l’inferno. L’orrore dei lager nazisti attraverso la testimonianza letteraria degli scampati al genocidio.

«Dire l’indicibile», per ricordare la Shoah

La «restituzione» delle voci dell’Olocausto in un saggio di Carlo De Matteis.

«Non potrete capire, non potrete mai sapere. Era l’espressione che affiorava sulle labbra durante il regno della notte. Non posso che ricordarla: “Voi che non eravate sotto il cielo di sangue, non saprete mai che cos’era. Anche se leggete tutte le opere, anche se ascoltate tutte le testimonianze, resterete dall’altra parte del muro: non vedrete l’agonia e la morte di un popolo se non da lontano, come attraverso lo schermo di una memoria che non è la vostra”. Confessione d’impotenza o di colpa? Non so. So soltanto che Treblinka e Auschwitz non si raccontano».

Gela il pensiero leggere queste righe di Elie Wiesel («Parole di straniero»), scrittore e premio Nobel per la Pace, testimone letterario della Shoah. Il 27 gennaio 1945 le avanguardie dell’Armata Rossa aprirono i cancelli e i reticolati di filo spinato del campo di sterminio di Auschwitz, rivelando al mondo gli orrori che vi erano stati consumati. Sono passati 65 anni, i sopravvissuti alle camere a gas stanno lasciando questo mondo, eppure l’incertezza della credibilità è il tormento che ha attraversato quasi tutte le pagine delle testimonianze dell’Olocausto. Come tutti gli altri reduci dei lager che hanno dedicato il resto della loro vita alla memoria letteraria del genocidio, anche il tormento di Elie Wiesel è stato quello di come rendere credibile l’incredibilità dell’inferno in terra che raccontavano.

Tormento che Primo Levi («Se questo è un uomo») riassume nelle affermazioni degli aguzzini SS: «Nessuno di voi - dicevano - rimarrà per raccontare, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. La gente dirà che i fatti che dite sono troppo mostruosi per essere creduti». C’è un altro terribile problema che ha angosciato i sopravvissuti, ed è quello di come dire «l’indicibile», di come rendere la parola adeguata a esprimere «l’immane indicibilità» di ciò che andavano raccontando. A questi tormentati testimoni della più disumana tragedia della storia è dedicato «Dire l’indicibile. La memoria letteraria della Shoah» (Sellerio, 190 pagine, 18 euro), ultimo lavoro di Carlo De Matteis, docente di Letteratura italiana contemporanea e filologia italiana nella facoltà di Lettere e filosofia dell’università dell’Aquila.

Non è solo la narrazione del calvario di un popolo, non è solo un recupero della memoria. Il saggio è una «restituzione» delle voci di uomini, donne e bambini di Auschwitz che fa rivivere a tutti l’orrore dei lager. De Matteis non ha ricostruito l’Olocausto come spezzoni di pellicole in bianco e nero, ha ricreato la vita nei campi della morte attraverso la testimonianza letteraria dei sopravvissuti, diventati poi professionalmente scrittori. E’ un libro intenso e duro, come le storie che raccontano gli autori che vi sono citati.

«Questo è l’inferno», scrive Primo Levi, «Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti. Eccoci tutti chiusi, nudi tosati e in piedi. Coi piedi nell’acqua, è una sala di docce. Se faremo la doccia, è perché non ci ammazzano ancora. E allora perché ci fanno stare in piedi, e non ci danno da bere, e nessuno ci spiega niente, e noi non abbiamo né scarpe né vestiti ma siamo tutti nudi coi piedi nell’acqua, e fa freddo ed è cinque giorni che viaggiamo e non possiamo neppure sederci?».

Ma l’abisso si tocca con l’episodio dei bambini, scrive lo spagnolo Jorge Semprùn rievocando il lungo viaggio in treno verso il lager di Buchenwald: «Sul fondo di un gelido paesaggio invernale, una quindicina di bambini ebrei escono dal vagone di un treno dove erano stati dimenticati, e si aggirano smarriti nella campagna disseminata di cadaveri, subito avvistati dalle SS. Mi ricordo, i ragazzini si guardavano intorno, guardavano le SS, all’inizio devono aver creduto che li scortassero semplicemente verso il campo, come poco prima avevano visto fare agli adulti. Ma le SS hanno mollato i cani e hanno cominciato a picchiare i bambini con le mazze, per farli correre, per mettere in moto quella caccia spietata sul grande viale fino a quando, dopo una corsa disperata tra i morsi dei cani e i colpi dei randelli, essi cadono a terra insanguinati e tramortiti. Quindi le SS, radunati i cani, tornano indietro e sparano alla testa a ciascuno dei bambini caduti».

Un impegno notevole il lavoro di De Matteis, che stimola l’emozione giusta per capirlo. Un’opera su un’ecatombe che successe solo pochi decenni fa e che oggi sono in troppi a voler dimenticare o a sminuire. Sei milioni di ebrei morirono in Europa in un eccidio senza precedenti nella storia dell’umanità. Dal Ghetto di Roma, dei 1.023 cittadini che rinchiusero sui treni per Auschwitz con il rastrellamento del 16 ottobre 1943, tornarono solo in 17 e tra questi solo un bambino dei 288 che erano stati portati via. Le 190 pagine di «Dire l’indicibile, la memoria letteraria della Shoah» stanno a ricordarci come andò.