La Passione degli aquilani

Strade buie nel centro storico e nessuna fiammella esposta sui davanzali delle finestre ancora distrutte. Davanti a San Bernardino, di fronte a migliaia di persone, l'arcivescovo Molinari si rivolge con queste parole ai suoi concittadini: "La croce, noi aquilani, la portiamo nel cuore. Non serve ostentarla"

L’AQUILA. «La croce, noi aquilani, la portiamo nel cuore. Non serve ostentarla». Parola dell’arcivescovo. Strade buie. Nessuna fiammella alle finestre sfasciate. Il centro storico, stanotte, è proprio come il Getsemani. È qui, davanti a San Bernardino, di fronte a migliaia di aquilani, che Molinari chiede scusa per le esternazioni fuori tema: «Rimproveratemi quando non vi parlo di Cristo ma di macerie».

BUIO TOTALE.
Che impressione, allora, alzare lo sguardo e puntare verso via Fortebraccio. Oppure infilare il naso nelle transenne di via Sallustio. O di via dell’Arcivescovado, a piedi piazza. Tutto buio. Un tunnel senza uscita. Un’oscurità che sembra avvolgere davvero ogni cosa. Persino il Cristo morto. Se è vero che, al rientro in basilica, le lampadine che illuminano il volto e il costato piagato si spengono. Il simulacro portato a spalla dai vigili del fuoco dell’Aquila passa in mezzo alle rovine spirituali e materiali, affettive, economiche e sociali scatenate dal terremoto in una città fantasma. Una catastrofe immane, che un anno fa bloccò la processione trasformandola in un funerale collettivo che nessuno, no, avrebbe mai voluto accompagnare.

Allo speaker Carlo Gizzi basta solo nominarli, i vigili del fuoco, ed ecco partire un applauso così forte che alla processione del Venerdì santo non s’era mai sentito. Gli altoparlanti rilanciano le loro provenienze: Cremona, Alessandria, Brescia, Rieti, Macerata, Padova, Chieti, Varese, Siracusa, Catania e mille altre città da dove, quella notte, partirono in tanti per scavare, aiutare, recuperare, salvare. Ma anche seppellire. Muta la campana della torre di palazzo. Niente rintocchi, alle 20,08, quando la processione muove i primi passi nel silenzio che c’è sempre stato ma che stanotte sembra ancora più intenso. I pompieri tirano fuori con delicatezza dalla basilica i simboli della Passione risparmiati dalla Grande Strage.

Li consegnano nelle mani degli aquilani, delle confraternite, da quelle di Sant’Antonio di Bagno e di Paganica a quella cittadina dell’Addolorata, delle parrocchie, come quella di San Giovanni Battista di Pile, dei gruppi giovanili, degli studenti come quelli dello Scientifico ai quali viene affidato un incensiere. Tragitto corto, stanotte. Oltre le transenne, oltre le camionette dell’esercito neppure Cristo morto può passare.

E allora giù, lungo via San Bernardino, con in testa al corteo i 60 bimbi infreddoliti e vestiti di bianco della De Amicis, che intonano l’«Ave Verum» di Mozart. Vocine e vocioni. Da dietro, quasi a voler urlare a quel buio che opprime, irrompe il Miserere di Selecchy dei cantori del coro aquilano del Venerdì santo, uomini e donne vestiti di nero che si muovono all’unisono guardando i maestri Enzo Vivio e Carlo Mantini. «Dio abbi pietà di noi», cantano anche a nome di quelle voci che stasera non si possono ascoltare, in questo tristissimo Getsemani. La processione si avvia lenta. Le opere d’arte non escono tutte. In compenso, è ristrettissima la pattuglia delle autorità che si accodano dietro al Cristo morto.

Accanto al sindaco Massimo Cialente in fascia tricolore, la presidente uscente della Provincia Stefania Pezzopane senza fascia («ce l’abbiamo fatta anche stavolta», sussurra mentre si avvia verso la piazza) e il prefetto Franco Gabrielli. È a capo piazza che la testa e la coda del corteo s’abbracciano. Sono tanti gli aquilani che fanno il tragitto completo. Dietro, i volontari dell’Unitalsi recitano il rosario. Il fiume di gente arriva fin sotto la Curia, dove l’arcivescovo guarda e riguarda la finestra della stanza da dove uscì vivo per miracolo. Le uniche finestre accese sono quelle della Banca d’Italia. C’è qualcuno, lassù, che segue questo corteo del dolore. La campana delle Anime Sante suona le nove. Le suore pregano e stringono nelle mani le candele accese. A lato del palazzo Carispaq due grosse luci non bastano a rischiarare il Vicolaccio. Il cielo è stellato. La pioggia, almeno quella, è solo un ricordo di vecchie processioni.

IL MEA CULPA.
In tanti chiedono perdono al passaggio di quel corpo sdraiato e coperto da un velo bianco. Lo fa anche l’arcivescovo Molinari, che alle 21,35 si avvicina al microfono sul sagrato di San Bernardino e tira fuori i fogli di un’attesissima omelia, viste le dichiarazioni che tengono banco negli ultimi giorni. Croci sì-croci no, macerie, popolo delle carriole. Accanto a lui l’ausiliare Giovanni D’Ercole che ha appena finito di dire a un giornalista: «Le croci? Per favore, è Pasqua!» che ecco scattare il mea culpa dell’altro vescovo. Partendo da Giovanni (capitolo 19), Molinari parla del corpo di Gesù «e di quanti hanno avuto la grazia di toccarlo». Già, il corpo di Gesù, cioè una Chiesa, quella universale come quella aquilana, ora più che mai in mezzo alle tempeste.

Il presule la prende larga, parla anche dei cristiani perseguitati nel mondo, ma poi alla fine parla ai suoi, agli aquilani. «Abbiamo camminato in processione in mezzo alle rovine della nostra città portando dentro pensieri e speranze. Siamo gente ancora sconvolta dal terremoto. Abbiamo davanti a noi il ricordo dei nostri cari ma anche gli immani problemi della ricostruzione. Ora vi dico: rimproveratemi e fatemi tacere se vi parlo di altro e non di Gesù Cristo morto e risorto. Io non sono stato mandato a voi per parlarvi di macerie, ma per incontrare e dialogare con voi pietre vive della Chiesa. Devo parlare della fede che ci unisce, di quel sepolcro che dopo tre giorni si apre e si svuota.

Materialismo e indifferenza cominciano a pervadere anche il nostro popolo. Ma, e spero di non sbagliare un’altra volta, sulla fiaccolata senza croci dico che noi Chiesa aquilana non siamo preoccupati di questo. Nessuno dev’esserlo. Ogni aquilano la croce la porta nel cuore. Non serve ostentarla. Il nostro essere cristiani dipende da come viviamo quella croce. Da come vivremo noi quest’enorme croce che il terremoto ha piantato qui». D’Ercole annuisce, segno che quest’omelia della pace di Venerdì santo è a doppia firma. Poco dopo, un emozionato padre Virgilio strapperà, se è possibile ridere stanotte, anche un sorriso quando dice: «Buon Natale».