L’intervista a Paride Vitale: «Comunico l’Abruzzo autentico, ora deve trovare la sua identità»

Pronto a lanciare il programma tv con lo chef wild Davide Nanni, si racconta dagli esordi con BMW alla lunga amicizia con Maurizio Cattelan
Cuore, esperienze, orapi, televisione, Parco, montagne, cavalli, libertà. Paride Vitale, col suo vocabolario fatto di passione e attenzione a una materia prima che per lui si chiama Abruzzo, è come un Dj che seleziona brani destinati a chi sta in pista a ballare con la sua musica. Sfornando una hit dopo l’altra. Una storia nata in alta quota, tutta da raccontare, con un finale tutto da scrivere.
Vitale, quanto le manca l’Abruzzo?
«Per niente (ride). Mi trovo a Pescara, ma sto per ripartire».
Ah sì, e come mai?
«Sono stato impegnato con il programma di Joe Bastianich, Foodish, dove ero il suo ospite alla ricerca dell’arrosticino perfetto».
E l’ha trovato?
«Lo vedrete in puntata. È appena partita la seconda stagione. Posso solo dire che in due giorni ho mangiato una quantità di rustelle… non ce la faccio più. Foodish è alla ricerca di cibi saporiti e Joe non poteva non arrivare in Abruzzo. Abbiamo girato quattro ristoranti e abbiamo finito di registrare due ore fa. Pensiamo di aver trovato l’arrosticino più gustoso. Ma l’Abruzzo è tanta roba».
Cosa la lega alla sua terra?
«Pescasseroli, casa. Sapete? Il Parco, gli orsi, da studente un’ora e mezza di viaggio all’andata e un’altra ora e mezza per il ritorno da scuola, ad Avezzano, dove ho studiato a Ragioneria. Mi sono temprato così, come tutti quei poveri cristi che vivono sulle montagne».
Come inizia la sua ascesa?
«All’Università a Bologna ebbi la grande fortuna di partecipare a un concorso. Avevo 22 anni e non mi ero nemmeno ancora laureato. Questo concorso lo facevano in tutte le facoltà di Economia in Italia, dove cercavano talenti da inserire all’interno di BMW Italia per il lancio della Mini. Che proprio in quel periodo arrivava in Italia».
E quindi?
«Eravamo 6.000 partecipanti. Ne prendevano 6 e sono stato uno di quei fortunati».
Non faccia il modesto, mica può essere solo fortuna?
«Sono sempre stato un appassionato di scrittura e al tempo avevo anche collaborato con qualche giornale. Credo che mi presero perché a tutti quelli di Economia era rivolta la stessa domanda: dove vorresti lavorare? E tutti avranno risposto nel marketing. Invece risposi: in un ufficio stampa. Per cui ebbi la grande fortuna di entrare come stagista all’ufficio stampa della BMW. Dopo sei mesi il Pr manager della BMW divenne il direttore del marketing e a me, a 22 anni, mi fecero Pr manager della Mini. I colleghi delle altre case automobilistiche avevano una età media di 50 anni. Il mio capo di allora mi disse: ti prendo perché non capisci niente di auto (ride). In effetti la Mini non la vendevi per i cavalli di potenza o per le cilindrate, ma perché era un mito».
E da quel mito nasce il suo di mito?
«Non esageriamo. Sono stato sempre appassionato di Mini e quindi diciamo conoscevo abbastanza quella realtà, dove ho lavorato per 7 anni».
Una vera sliding doors.
«Sì, sì, assolutamente. Devo tutto all’allora capo della comunicazione che disse: voglio Paride. Contro tutta l’azienda… avevo appena 22 anni ed ero entrato da poco. È stato tutto molto bello. Non dovevo vendere una macchina ma un’icona. Ed è lì che ho potuto allenare la comunicazione».
Tolga una curiosità: quando ha influito la sua testardaggine abruzzese?
«Guardi, lo dico sempre, noi abruzzesi siamo un po’ D’Annunzio e un po’ Flaiano, un pizzico pazzi e un altro po’ avventurosi, con la voglia di fare, di pensare sempre in grande. Ma quanti esperti di Mini ci stanno in giro per l’Italia?».
Ma non mi dica che tutti gli abruzzesi hanno questo spirito? Staremmo qui a raccontare tutto un’altra storia di questa regione.
«Gli abruzzesi conosciuti fuori dall’Abruzzo hanno tutti quel coraggio. Hanno fatto tutti dei salti, hanno osato, si sono sfidati con se stessi. Hanno sfidato anche territori come Milano, che non è certamente un posto facile».
Il coraggio e la follia di D’Annunzio. E perché Flaiano?
«Perché non ci prendiamo mai troppo sul serio. Ho avuto sempre un distacco col mio lavoro, ho sempre mantenuto quella giusta distanza per vedere le cose né troppo da vicino né troppo da lontano. Qui a Milano pure chi organizza una semplice cena fa sembrare che sta salvando il mondo. Non salverò il mondo con la comunicazione, quindi faccio tutto con distacco. E poi un’altra cosa mi piace degli abruzzesi».
Dica.
«Siamo gente seria. Le cose le facciamo bene. E lo riscontro in tutti gli abruzzesi che vedo fuori dall'Abruzzo. Sa qual è un detto di Pescasseroli?».
Non ne ho idea…
«Chi vo’ va’».
Chi vuole va. Interessante.
«Geniale. Lo adoro, perché credo sia il detto più breve al mondo».
Un odore, un suono, un paesaggio che evocano in lei le radici abruzzesi?
«C’ho fatto un profumo. Se penso a un odore è quello dei boschi del Parco. Prima ho parlaro di poveri montanari...».
Sì.
«Scherzavo. Ho avuto la fortuna di vivere in un posto come Pescasseroli, con un’infanzia meravigliosa. Perché tu vivi nei boschi, in mezzo alla natura, puoi andare a cavallo. Un’infanzia così è fantastica perché hai il tempo di riflettere e anche di annoiarti».
E un luogo del cuore?
«Guardi, non voglio dire Pescasseroli perché sarei troppo di parte, quindi dico Scanno. Per me è il Bignami d’Abruzzo, perché è il condensato dell’Abruzzo, cioè un borgo fuori dal tempo, ricco, bellissimo, con un lago a forma di cuore. Dove hai natura, storia, arte, tutto condensato in un unico posto».
Questo è vero amore.
«Sì, sono innamorato dellìAbruzzo. Ed è per questo che dopo quindici anni di lavoro mi sono detto: voglio mettere a disposizione, sul brand Abruzzo, quello che ho imparato. E ho tante di quelle soddisfazioni… Perché forse questa regione non è stata mai troppo comunicata prima. E ne ha bisogno. Per Armani, per Ferrari, faccio degli esempi di marchi più famosi, sono buoni tutti a comunicare, ma quando devi farlo con una roba non abbastanza nota... Così penso di avere qualche merito nel comunicare il mio Abruzzo. Ma il merito è soprattutto di questa terra meravigliosa».
Se dovesse tradurre tutto in uno spot?
«Guardi, partirei da quello che abbiamo, i parchi nazionali, il mare, l’autenticità che ha ancora l’Abruzzo e che secondo me si trova raramente, non solo in Italia ma anche in Europa. Allora noi siamo ancora autentici e quindi dobbiamo comunicare l'autenticità».
Faccia un esempio. Qual è una cosa autentica?
«I trabocchi. I borghi, pensiamo a Santo Stefano di Sessanio o a Opi. Pensiamo a Bominaco con l’oratorio di San Pellegrino. Andare in canoa sul fiume Tirino. Se queste cose le fai vedere o le fai fare a un giapponese? Non ci capisce più niente. Abbiamo tutte le qualità per dare quello che adesso il mondo vuole. La moda ha una crisi totale mentre l’hospitality è un settore che cresce tantissimo. Perché la gente adesso, anche dopo il Covid, vuole esperienze personali, forti, autentiche. Allora noi siamo ancora una regione che è in grado di dare autenticità e dare esperienza. E siamo forti».
La fermo. Non siamo ai livelli di Puglia o Emilia Romagna. Saremo pure forti ma qualcosa manca.
«La visione. Manca una visione. Perché noi spesso, in tutte le cose che facciamo in Abruzzo, pensiamo agli abruzzesi. Quando facciamo i festival, le manifestazioni, gli eventi pensiamo agli abruzzesi. No, dobbiamo pensare al mondo ed elevare questa visione, avere un po’ più di autostima, guardare alla luna e non al dito».
È un rimprovero alla classe dirigente?
«Forse più a una generazione, quella generazione che non è stata in grado di vedere nell’Abruzzo un posto autentico. Negli anni è passata l’idea della regione industriale, non come hanno fatto in Puglia e o in Toscana. Un esempio arriva dall’Aquila, dove credo che il sindaco stia facendo un ottimo lavoro. È una persona che ha una visione. E guardi, non è che sia proprio di destra. Pensare all’Aquila come Capitale della cultura italiana, non capitale della cultura abruzzese. Deve essere un bell’esempio. Ti giochi la partita di una città internazionale e non famosa in Abruzzo. Quindi vanno comunicate le esperienze che noi possiamo dare».
E quanto andrebbe pagata un’esperienza? Cosa ne pensa di questo dibattito estivo sul caro prezzi?
«Siamo in un momento di crisi, è vero. Però dovremmo pensare alla qualità del turismo e non alla quantità. A me non interessa che esca la notizia che l’Abruzzo è la quarta regione più visitata. A me interessa alzare il livello, che non vuol dire necessariamente lusso. Siamo una regione dove fai fatica a trovare una struttura ricettiva di livello, cioè le conti su una mano. E’ la qualità che attira le persone. Va cercata consapevolezza in questo».
L’influencer che ha riempito Roccaraso dove la colloca?
«Nel turismo ignorante e cafone. Da evitare come la peste. Sono andato a difendere Roccaraso in tutte le televisioni italiane, in tutti i programmi. È un paese-gioiello, non quella roba lì. Un danno enorme, perché facciamo già grande fatica a non passare per la regione delle pecore e degli arrosticini ed episodi come quello dell’influencer sono da respingere. Questa è una regione che invece ha tanta cultura, arte, dei posti incredibili. Guardi, lo dico perché vedo quello che è accaduto con il mio libro, alla sedicesima ristampa».
Spieghi meglio.
«Tutte le persone che ho incontrato e che hanno letto il mio libro, 20mila, mica dieci, mi esclamano: cavolo, ci hai fatto scoprire dei luoghi pazzeschi. E lo dice uno che ha viaggiato per il mondo per lavoro, che ha visitato tanti luoghi».
Cosa direbbe se si trovasse di fronte a chi governa questa regione?
«Penso che Marco (Marsilio, ndr) stia facendo un ottimo lavoro. L’aeroporto può essere una vera risorsa. E spero che si faccia il famoso treno Roma-Pescara. Perché quello delle infrastrutture è un vero problema. Come quello delle strutture ricettive. E sono cose che al presidente ho detto diverse volte».
Torniamo al suo libro “D’amore e d’Abruzzo”. Come si spiega tanto successo?
«Forse perché è volutamente semplice. Ogni volta che faccio una presentazione c’è qualcuno che arriva e mi dice: pure io ho scritto un libro sull’Abruzzo… Il mio probabilmente è peggio di quello degli altri ma fa percepire l’amore per questa terra. La comunicazione è il vero motore. Quando l’anno scorso ho fatto un reportage per il Corriere della Sera sulle cantine abruzzesi mi sono reso conto che abbiamo un’eccellenza assoluta ma non valorizzata abbastanza».
Motivo?
«Perché qualche vizio ce l’abbiamo. Uno è quello di non sapere fare squadra».
Invidia?
«Provincialismo. A un imprenditore non gli va data una colpa se cura il proprio orticello. Però servirebbe qualcuno al di sopra delle parti che metta insieme queste imprese, sia nel pubblico che nel privato. Alzare il tiro vuol dire anche questo, avere una visione dell'Abruzzo e comunicarla in maniera forte».
Lei parla di cultura. Non crede che anche in questo settore vada creata una rete diffusa?
«Parlerei più di identità, anche in questo caso. Un esempio. Milano ha inventato le week, quindi la Fashion Week, la Design Week, l'Art Week, la Food Week. È un format. Pescara, per me, dovrebbe giocarsi la carta dell’arte contemporanea. L’arte contemporanea è un settore che attira in tutto il mondo una quantità di soldi, è un investimento. Ha un pubblico fatto di giovani ma anche persone più adulte, come collezionisti. E c’è un fior fiore di artisti abruzzesi d’arte contemporanea come Matteo Fato. Devi creare un’identità. Tu non puoi fare un giorno la sagra della porchetta e il giorno dopo una mostra sul Seicento abruzzese. Devi sceglierti un’identità chiara e su quella lavorare. In comunicazione una vecchia regola è: quando sei coerente e costante le cose funzionano. Pensate ad Arteparco da me creata a Pescasseroli, l’arte all’interno dei borghi. Tu che ami l’arte non vai in un museo ma in un posto meraviglioso come il Parco nazionale. L’arte messa nei boschi, la nostra identità. Ed è un evento che dura un anno, dall’estate alle luminarie di Natale e oltre».
La Notte dei Serpenti? Sa del dibattito di questi giorni?
«Un’iniziativa validissima, ma che dovrebbe trovare uno sfogo che sia diluito nel tempo».
Passiamo ad altro. La prossima volta che torna in Abruzzo che cosa vorrebbe mangiare?
«I caratelli con gli orapi. Ovvero una pasta tipica con uno spinacio di montagna».
Cosa le manca quando è lontano da casa?
«Il silenzio della natura, roba impagabile. Le mie migliori idee nella comunicazione mi vengono quando vado a fare passeggiate nei boschi».
Preferisce i trabocchi o la Camosciara?
«Preferisco il lago di Barrea. Perché è il mio mare».
Il suo rapporto con la famiglia?
«Ottimo. Purtroppo ho perso da poco il mio papà Federico, mi sarebbe piaciuto che avesse visto delle cose che sto facendo. Ma per fortuna ho una mamma carichissima, Graziella».
Quali consigli le hanno dato i suoi genitori?
«Ho avuto la fortuna che entrambi mi hanno lasciato totalmente libero di fare la mia vita. Avrei potuto fare il pizzaiolo o avere la carriera che ho avuto, sarebbe stato uguale. Ho trovato la mia strada grazie alla libertà che m’hanno dato. E per questo li ringrazio».
C’è qualcuno a cui si ispira?
«Lavoro con lui da tanto: Maurizio Cattelan, l’artista italiano più famoso al mondo. Ricordate la sua banana attaccata sul muro con uno scotch e diventata in tutto il mondo virale? Anche con delle cose banali o ridicole lancia dei messaggi che sono molto più forti di quello che sembrano. Lo ammiro. Geniale, passerà alla storia dell’arte. Si pulisce casa da solo, non ha macchine, ha una bicicletta perché dice che ogni cosa che tu aggiungi alla tua vita poi devi occupartene».
Papa Francesco era un grande comunicatore e parlava di una Terza guerra mondiale a pezzi. Lei cosa ne pensa?
«Che ha ragione. Sono preoccupato per quello che accade. Purtroppo la storia non insegna».
Il suo pregio principale qual è?
«Il distacco. Già detto. Nei confronti dei miei soldi, del lavoro... E questo credo sia molto abruzzese».
E il difetto più grande?
«Permaloso. Ma è normale, sono un Leone ascendente Leone».
Altro tema molto abruzzese è legato allo spopolamento dei borghi.
«Hanno un potenziale imprenditoriale. Dobbiamo fare come con le canoe sul Tirino».
Quanto sono importanti i social nella comunicazione?
«Sono diventati un media, tanto quanto la televisione e i giornali. Fino a sei anni fa nella mia agenzia non c’era un reparto digital. Avevo l’ufficio stampa, la produzione di eventi… adesso si è aggiunto quello per i social. Sono uno strumento di comunicazione più immediato, più veloce, non hanno confini».
Però a Roccaraso hanno combinato danni?
«Vabbè, che significa. È come con la televisione spazzatura o i giornali spazzatura. Esistono. Sono per l’evoluzione, ovviamente a favore dell’intelligenza artificiale. Le cose cambiano. La Ferragni adesso non funziona più, non funzionano più le influencer per vendere i prodotti. C’è e ci sarà un’evoluzione in tutto, anche per i social».
La sua passione?
«Il burraco. Tanto che a Milano ho fondato la Burraco Society insieme a Cattelan, che ora è quasi un marchio».
C’è un posto per qualcuno nel suo cuore?
«Per Ettore e Ornella, i miei Jack Russell».
Il prossimo progetto?
«Sarà dedicato all’Abruzzo. Ed è il più bello. Dal 29 settembre, ogni domenica alle 22, andrà in onda su Food Network, canale 33, il programma D’amore e d’Abruzzo che ho fatto con lo chef wild Davide Nanni, quello che cucina nei boschi. Parleremo del mio libro e gireremo l’Abruzzo, raccontandolo in maniera leggera. E divertente».
La prima puntata su cos’è?
«Facile. Il Parco nazionale d’Abruzzo (ride)».
E poi?
«Sto aprendo un boutique hotel a Pescasseroli, di livello, di qualità. Roba innovativa. Un posto per vivere delle esperienze, a cavallo, in bici, a piedi».
Se le proponessero di salire in cattedra per insegnare a comunicare l’Abruzzo?
«Perché no, inizio ad avere una certa età».