Editoriale

Luca Telese: «Quando i terroristi minacciano i moderati»

15 Luglio 2025

L’editoriale del nostro direttore: “Colpire Letta, secondo quanto riferiva ai giudici la fonte coperta, voleva dire colpire un simbolo della odiatissima e fantomatica “Casta””

Sapevamo già, dai tempi del loro rinvio a giudizio, che tra i bersagli dei neonazisti abruzzesi c’erano dei personaggi che gli uomini della banda consideravano nemici perché vicini alla causa dei migranti: su tutti Cécile Kyenge e Laura Boldrini che all’epoca dei fatti erano visibili e riconosciute in ruoli istituzionali, in Parlamento e nel Governo (e una lista di dodici bersagli ancora non nota). Sapevamo già che i neofascisti abruzzesi avevano minacciato di morte Enrico Letta (quando era presidente del Consiglio) considerando anche lui, ex professore di Science Politique a Parigi, come l’ambasciatore in Italia di una società degenerata contaminata e cosmopolita (a loro avviso un orrore), e dunque un pericoloso propagandista della famigerata “Sostituzione etnica”. Tuttavia, malgrado questo, abbiamo fatto un salto sulla sedia, ieri, quando il nostro collega Gianluca Lettieri (che sta passando ai raggi X tutte le carte della sentenza) si è imbattuto in un estratto della deposizione di uno degli agenti infiltrati tra gli estremisti. I giudici, riportando la testimonianza dell’agente coperto, l’hanno evidentemente ritenuta degna di attenzione politica e di rilievo penale: in quella deposizione il nome di Gianni Letta veniva indicato come bersaglio della banda armata, possibile obiettivo di un attacco mortale al pari degli altri che abbiamo ricordato nei giorni scorsi (dai parlamentari Stefania Pezzopane a Nazario Pagano).

Il motivo per cui questa scoperta la facciamo solo oggi è semplice: al contrario di altri nomi, che a diverso titolo erano finiti citati nei documenti interni nel gruppo, il nome del sottosegretario alla presidenza di Palazzo Chigi dell’era Berlusconi, il grande tessitore della politica nel Palazzo, “l’eminenza azzurrina” della politica italiana (il copyright onomato-cromatico è di Roberto D’Agostino) non era finito nei documenti interni del gruppo, ma si trovava in un allegato compartimentato dell’inchiesta, ovvero nel novero delle deposizioni secretate degli inquirenti più esposti: gli agenti infiltrati tra le fila degli eversori.

Colpire Letta, secondo quanto riferiva ai giudici la fonte coperta, voleva dire colpire un simbolo della odiatissima e fantomatica “Casta”. Sia la destra che la sinistra eversiva hanno sempre condiviso il disprezzo per i politici che rappresentano un volto del Potere, soprattutto se modesti e portatori di consenso: ecco perché esiste un filo di coerenza storica che dà senso e plausibilità, anche a questo potenziale obiettivo, secondo quanto scritto dal nostro Lettieri. Il primo motivo affonda in radici lontanissime: all’inizio della storia Repubblicana, i primi neofascisti eversori, quelli degli anni Cinquanta, vedevano nello Stato nato dalla “Repubblica bastarda” (così la chiamavano loro) un nemico naturale. Ma negli anni Sessanta si produce un ulteriore salto di qualità: un pezzo del vecchio Stato che non nascondeva collegamenti con i servizi, alleanze atlantiste e nostalgia per il Ventennio mussoliniano, inizia a scegliere dei bersagli politici che potessero dare un senso ad azioni di eliminazione mirata e selettiva. Suscitò clamore – in questa chiave – una rivelazione retroattiva di Stefano Delle Chiaie che nella sua biografia (L’Aquila e il condor) raccontava di come, in un imprecisato giorno del 1964, un uomo che si qualificava come “esponente dei servizi segreti”, era entrato nella sede romana di Avanguardia nazionale, chiedendo di parlare con il capo del gruppo (cioè lui).

Una volta ottenuto il colloquio, l’ufficiale barbafinta gli aveva fatto questa stupefacente proposta: «E se voi di Avanguardia nazionale sequestraste Aldo Moro?». Delle Chiaie non spiegava in quelle pagine per quale motivo un uomo dei servizi segreti dovesse rivolgersi con tanta confidente speranza proprio a un gruppo “Rivoluzionario” e “Neofascista”, che sui muri di Roma (per confrontare le acque) attaccava manifesti di esaltazione della Cina maoista. Ma non ne aveva bisogno perché la risposta era implicita. Nel pieno della guerra fredda, dopo uno storico convegno tra militari ed eversivi all’Istituto Pollio di Roma, era stata battezzata la cosiddetta “strategia della tensione”: anziché un conflitto di un vecchio Stato contro il nuovo, stava iniziando quello di un anti Stato eversivo che combatteva dentro lo Stato: ovvero una guerra alla Repubblica, mossa nella speranza di costruire un altro regime. L’Aldo Moro che era diventato così precocemente bersaglio potenziale degli estremisti neri perché apriva le porte del governo ai socialisti del Psi, divenne dieci anni più tardi bersaglio degli estremisti rossi perché apriva le porte ai comunisti del Pci. Ma non si trattava di un episodio isolato: nel pieno della stagione del piombo i moderati, contro le apparenze e contro l’almanacco dei primi omicidi politici, divennero rapidamente un bersaglio privilegiato. Morirono così (uccisi dai brigatisti rossi) il sindaco repubblicano di Firenze Lando Conti e l’economista democristiano Roberto Ruffilli.

Ancora negli anni Duemila, il fuoco degli ultimi terroristi crepuscolari (anche in questo caso rossi) si concentrò sui moderati di sinistra, “riformisti”: caddero così Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi. L’idea di colpire Letta, per un gruppo armato che operava in Abruzzo, poteva avere una doppia suggestione: sapere di poter contare su di un bersaglio con un forte radicamento nella regione (quindi operativamente raggiungibile, anche per prossimità). Colpire un bersaglio mediaticamente noto a tutti (anche per la sua carriera di giornalista e tele-giornalista). Ma, soprattutto, mimare la delirante impresa brigatista ai tempi di Moro: un democristiano, moderato, additabile (dal delirio della propaganda) come grande cerimoniere di Palazzo Chigi. Lo choc per questo “gesto violento”, secondo uno dei meccanismi più antichi della mentalità terrorista (in ogni tempo e in ogni luogo), avrebbe fatto da detonatore di una deflagrazione più grande. Avrebbe provocato il caos nel Paese, mostrato la vulnerabilità del Potere, preparato un terreno propizio – nei discorsi dei Nazisti abruzzesi – per la tanto vagheggiata “Rivoluzione nera”. Per fortuna il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, per fortuna i carabinieri si sono rivelati maestri dell’infiltrazione: la banda è finita in carcere e l’inossidabile Letta può ricorrere all’ironia: «Per me è una medaglia».

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