Piccoli negozi alimentari in crisi: pesano l'inflazione e le culle vuote

Nel rapporto di Fiesa Confesercenti i numeri dell’affanno: in 598 comuni italiani manca un panificio. Il presidente Erasmi: «Dove un’attività chiude arretra la vita economica di un’intera comunità»
TERAMO. L’inflazione e l’inverno demografico rappresentano un binomio micidiale per le piccole attività, soprattutto nei paesi dell’entroterra. E sono tante quelle che hanno abbassato per sempre le loro saracinesche. Chiusure che hanno un peso non solo economico, ma anche sociale: le botteghe e i minimarket rappresentano dei veri presidi sui territori, fornendo servizi essenziali. È all’interno di questa cornice che si è sviluppata ieri a Teramo l’assemblea annuale della Fiesa Confesercenti (federazione italiana esercenti specialisti dell’alimentazione): vertici nazionali ed esperti del settore si sono confrontanti sul tema, snocciolando dati e commentando analisi di settore.
Dal convegno “Alimentare il territorio: negozi alimentari indipendenti e piccola distribuzione tra inverno demografico e inflazione” è emerso, tuttavia, che pur tra le difficoltà del settore del commercio, le piccole attività appaiono più resilienti. Ma la crisi del settore è evidente nei numeri di Fiesa: in Italia più di 4,5 milioni di italiani vivono in comuni dove è scomparso almeno uno dei negozi alimentari essenziali. In Abruzzo oggi sono 676 i minimarket e i supermercati indipendenti; 2451 gli addetti.
Le regioni con la presenza più ampia sono Campania (3.576 punti vendita), Lombardia (3.060) e Lazio (2.736), seguite dalla Sicilia (2.400) e dalla Puglia (2.119), «a conferma del peso del Mezzogiorno in termini di densità di esercizi di piccola e media distribuzione radicati sul territorio», rileva il rapporto Fiesa. Guardando ai fatturati di queste realtà in Abruzzo, dal 2019 al 2022 sono leggermente aumentati ma i costi delle materie prime di più. In Italia 598 comuni sono oggi privi di panificio, 576 senza negozi di frutta e verdura, 650 senza macelleria e 232 senza punti vendita di latte e derivati. Un focus è stato fatto anche sulla distribuzione di prossimità (panifici, ortofrutta, macellerie, pescherie, negozi specializzati) che è passata da 123.095 a 115.968 attività tra 2019 e 2024: 7.127 negozi in meno e circa 12.000 addetti persi. Il calo è più marcato nei comuni sotto i 5.000 abitanti (–7,8%) e nelle grandi città (–7,1%). Emerge ancora dal rapporto:
«Nonostante la contrazione numerica, i minimarket e i supermercati indipendenti mostrano una capacità di resistenza superiore a quella della rete tradizionale: i punti vendita diminuiscono, ma l’occupazione tiene. Il personale scende solo del 5%, contro un calo del 13,9% delle superfici: significa che queste imprese continuano a generare lavoro e presidio locale finché restano aperte. Inoltre, nei comuni di media dimensione la loro presenza è più forte e radicata. Questa rete ha anche una funzione occupazionale: oltre il 60% degli addetti nei minimarket e supermercati indipendenti è donna». Il rapporto, illustrato da Alessandro Rinaldi, vicedirettore generale Centro Studi Tagliacarne, ha messo in rilievo l’impatto dell’inflazione e come, numeri alla mano, le famiglie oggi pagano di più (il 14%) per comprare meno. Per Fiesa Confesercenti il processo va invertito tramite precise linee di intervento: «Occorre garantire l’accesso alimentare nei territori fragili, rafforzando i Distretti del Commercio e riconoscere i negozi essenziali come infrastruttura territoriale.
Serve stabilizzare i margini delle microimprese della prossimità, riducendo i costi fissi – a partire dal costo del lavoro – e attivando strumenti compensativi selettivi. È necessario poi legare commercio e coesione territoriale, perché dove resta il negozio resta la possibilità stessa di vivere». Per il presidente nazionale di Fiesa (riconfermato ieri alla guida), Daniele Erasmi, «i dati mostrano che non è solo un problema del segmento commerciale, ma di accesso quotidiano ai beni alimentari nei territori. Dove un negozio chiude non arretra il mercato: arretra la vita economica di una comunità. Servono politiche selettive, non contributi generici. Difendere la prossimità non è una misura di tutela, è una strategia di sviluppo».
©RIPRODUZIONE RISERVATA

