Addio a Baudo, la tv della Prima Repubblica: l'editoriale del direttore

È stato allo stesso tempo precursore di una certa televisione moderna, il proto-talent show, impresario e presentatore a Sanremo
ROMA. Per molti Pippo Baudo fu un sinonimo del varietà, delle paillettes della Rai sontuosa in bianco e nero, di registi come Antonello Falqui, il re indiscusso dell’intrattenimento. Eppure, per uno di quei capovolgimenti che il destino spesso regala ai suoi attori mattatori, adesso che Baudo muore, il racconto della sua televisione sembra diventare il testamento di una stagione politica e culturale di un Paese che non c’è più. Un funerale della televisione della Prima repubblica è l’ultimo funerale della Prima Repubblica. Quello che simbolicamente li riassume tutti.
Dice Walter Veltroni: «Fu l’uomo dell’inclusione». Vero. E aggiunge Aldo Grasso, critico televisivo, storico della televisione italiana: «Fra le tante cose che fece in Rai, la più importante e riuscita fu la domenica di Domenica In, che era la grande funzione religiosa della televisione laica, di cui Pippo fu il sommo e unico sacerdote». Vero anche questo. Ma non c’è una contraddizione fra queste due sintesi: perché Pippo Baudo fu allo stesso tempo il precursore di una certa televisione moderna, il proto-talent show, il Sanremo del factotum che diventa sia impresario che presentatore, il papà di Amadeus dunque, ma anche il fratello maggiore di Renzo Arbore. Più istituzionale di Arbore, meno dissacratore, ma interprete convinto di un’idea di televisione che era una idea di racconto del Paese, l’adesione a una profonda identità italiana e nazionalpopolare.
Pippo Baudo fu considerato il gran cerimoniere dell’Italia democristiana, era democristiano (poi divenne ulivista, era un democristiano televisivo, bernabeiano, nel senso di Ettore Bernabei, grande patron di viale Mazzini. Ma fu anche l’uomo che aveva scoperto Beppe Grillo andando a guardare uno spettacolo off, l’uomo che lo aveva portato nella sua cattedrale, lo aveva persino ospitato a casa sua, in un aneddoto poco noto al grande pubblico, ma ben ricordato da Beppe, quello secondo cui dormiva nella stanza degli ospiti e gli faceva i dispetti la mattina.
Pippo Baudo fu cristallizzato in un momento di tv reality, appeso in modo quasi acrobatico a una specie di impalcatura, mentre catechizzava e redimeva Cavallo pazzo, grande contestatore. Portato nel tempio sanremese e disinnescato come solo la Democrazia cristiana sapeva fare: un antisistema, abbracciato dal sistema e soccorso dal suo più grande interprete.
Pippo Baudo fu la simpatia, fu il luogo comune, fu contestato come icona del potere, fu orgoglioso di tutte queste cose: il fatto di essere bersaglio di tante critiche lo rendeva vivo, e solo una cosa lo amareggiò più di ogni altra, quello di essere stato cancellato, alla fine della sua carriera, da un qualche capostruttura capriccioso, con un tratto di penna su un palinsesto.
Andrea Salerno, direttore di La7, sintetizza così una biografia umana e professionale: «Con Pippo Baudo se ne va l’ultimo dei grandi della golden age della tv generalista, della Rai. Quella che passò dal bianco e nero del canale unico alla tv a colori, alle tv private. Un altro mondo, alle basi di quello che c’è ora». Vero anche questo. Adesso che non c’è più ci rendiamo conto che l’Italia nata alla fine della Repubblica, quella dell’espulsione, ci fa rimpiangere la Rai di Baudo, come un bene rifugio. Come una madeleine proustiana perduta per sempre.
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