Botteri: così Israele detta la strategia degli Stati Uniti

La giornalista: «Netanyahu decide i confini del conflitto, Trump segue a ruota»
Prima degli ultimi attacchi in Iran, Giovanna Botteri, giornalista triestina classe 1957, ha vissuto e raccontato alcune pagine cruciali della storia degli ultimi quarant’anni, dall’abbattimento del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, all’assedio di Sarajevo e la guerra in Kosovo, fino al rovesciamento del regime talebano in Afghanistan, poi a Baghdad durante la seconda guerra del golfo. Oggi una delle firme più apprezzate del giornalismo italiano, volto della Rai per cui è stata inviata negli Stati Uniti, in Cina, in Francia, ci aiuta a fare luce su una guerra, quella tra Israele e Iran, in cui da poche ore è entrato un nuovo attore: Donald Trump, presidente degli Stati Uniti. Un evento ineluttabile, forse, ma che può sorprendere: fu proprio lui a presentarsi nell’ultima campagna elettorale come l’uomo delle mediazioni contro i guerrafondai democratici.
Giovanna Botteri, siamo passati da Trump pacifista a un attacco diretto all’Iran. Ci aiuta a capire?
«Quando Trump si è presentato nell’ultima campagna elettorale aveva lanciato una serie di capisaldi che hanno avuto un certo effetto sull’elettorato: il suo America First comprendeva anche lo stop alla spesa militare per guerre che si sarebbero risolte, diceva, in quarantotto ore e con una telefonata».
Invece?
«È stato esattamente il contrario: Putin e Netanyahu hanno continuato a far quello che volevano, per non dire che la garanzia di avere una Casa Bianca così lontana dalla tradizione atlantica ha dato via libera a Netanyahu per espandere il conflitto fino ai confini pensati sin dall’inizio, in Iran».
Paese con cui proprio gli Stati Uniti stavano trattando appena qualche settimana fa.
«Poi Netanyahu attacca Teheran e qual è il primo obiettivo che Israele uccide? Il capo dei negoziatori iraniani al tavolo delle trattative con l’America. Il messaggio è: noi andiamo avanti».
Detto in altre parole: non decide Trump.
«La strategia la detta Netanyahu, gli Stati Uniti seguono a ruota».
Quindi anche la loro entrata diretta nel conflitto è orchestrata da Israele?
«Evidentemente Trump ha pensato che Netanyahu stesse davvero disintegrando l’arsenale nucleare iraniano e che intervenendo avrebbe potuto intascarsi sul piano internazionale il merito di aver fermato il rischio di un’atomica in mano all’Iran».
Ma tra Ucraina e Medio Oriente, sembra che il grande assente alla Casa Bianca sia una visione prospettica di diplomazia oltre che militare.
«Trump non ha né la preparazione né l’umiltà di affidarsi a un team preparato su questioni così complesse, non è un caso che una volta eletto abbia subito stravolto i vertici del Fbi e dell’intelligence, salvo poi far salire a capo uno come Tulsi Gabbard, che oggi dice che all’Iran mancano dai tre ai sei anni per avere una bomba atomica».
Ma neppure una figura trainante come Netanyahu sembra seguire una linea precisa. Anche lui vuole presentarsi alle elezioni come liberatore?
«Prima bisogna capire qual è il suo obiettivo reale. Dopo il 7 ottobre avremmo detto che la questione fosse la liberazione degli ostaggi, ma oggi quasi se ne parla più. Poi pensavamo fosse la decapitazione dei vertici di Hamas, ma adesso il focus è sull’Iran. C’è un’incertezza generale che rende impossibile leggere il quadro completo. L’unica cosa chiara è che tra quei ragazzi che cercano un pezzo di pane sotto le bombe ci sono i prossimi nemici di Israele».
Ma lei è stata tante volte in Iran e sa che c’è anche una fetta di giovani, soprattutto nelle grandi città, che accoglie di buon grado la fine del regime.
«Sì, ma è un Paese da 90 milioni di abitanti, gigantesco e molto diversificato. Ci sono tanti ragazzi colti che oggi vivono respirando la modernità delle università nei pochi grandi centri urbani, ma è una porzione di un territorio enorme, oggi molto impoverito».
L’ultima volta che è stata lì che Paese ha trovato?
«L’Iran è bellissimo, per certi versi molto simile a noi. Quando fu firmato l’accordo sul nucleare, c’era grande speranza tra i ragazzi. Così fu con l’elezione del riformista Khatami».
Con gli attacchi di queste ore si apre la strada per un Iran più “occidentalizzato” o si va verso un’instabilità peggiore di quella che c’è oggi?
«Ogni Paese ha la sua strada verso la democrazia, è una conquista lenta, non si impone dall’alto a suon di bombe. Trump e Netanyahu pensano che la distruzione del nemico sia una difesa della nostra democrazia, riportando in auge una logica antichissima e che ci eravamo illusi di aver superato».
Quale?
«Quella del più forte che si impone al di là di ogni senso di umanità, giustizia, diritto. Ma noi europei siamo cresciuti con un’altra idea: quella del compromesso, dell’intesa».
Strumenti con cui oggi l’Europa può avere un ruolo in questo scenario?
«Prima avrebbe dovuto prendersi la responsabilità degli accordi sul nucleare che l’Iran ha sempre rispettato in tutti i suoi termini. E avrebbe dovuto intervenire in Ucraina, un suo territorio, quando sono iniziate le tensioni con la Russia».
Oggi concretamente cosa può fare?
«Deve cercare a tutti i costi di riprendere un discorso di politica estera che sia unitario e che risparmi ai Paesi dell’Unione la spesa militare per il riarmo. Quei soldi vanno indirizzati altrove, nella sanità e nell’istruzione. La via europea è la diplomazia».
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