Caprarica: «Se scorre il sangue degli americani, sarà la fine di Trump»

Il giornalista al Centro: «Ora gli Usa devono fermare Israele, sulla scena dell’Iran contano anche i ruoli di Russia e Cina»
ROMA. «Se comincia a scorrere sangue americano, non glielo perdoneranno». Il giornalista e scrittore Antonio Caprarica guarda avanti, alle elezioni Usa del midterm 2026, e prevede uno scenario possibile: se adesso va male la campagna d’Iran, per Trump potrebbe essere l’inizio della fine.
La reazione dell’Iran è arrivata e adesso?
«Una classica reazione telefonata, cioè era quello che tutti sapevamo sarebbe dovuto arrivare. Non era immaginabile che il regime iraniano accettasse di venire bombardato senza mostrare almeno di digrignare i denti, che è esattamente quello che ha fatto, con un attacco annunciato alle basi americane in Qatar. Il segnale che dà l’Iran è in realtà un segnale che, per così dire, è nei margini del tollerato. Ora bisogna vedere qual è la valutazione che ne faranno gli americani: la reazione iraniana non è furiosa».
La reazione iraniana era scontata?
«Scontata nel modo più assoluto, il punto cruciale era di vedere che dimensioni avrebbe avuto e che aspetto avrebbe preso, quale sarebbe stata la vastità e la gravità della reazione: da questo punto di vista, si può dire tranquillamente che è stata la più scontata e la più, se vuole uso un aggettivo che sembra assolutamente improprio nella situazione, “rassicurante”. La reazione doveva esserci ed è arrivata: è una reazione che non ha fatto morti, non ha fatto feriti, ha provocato danni e questo era inevitabile, ma è nei limiti. Ora, bisogna vedere che cosa hanno in testa gli americani: questo è il punto cruciale».
Appunto, il mondo è in ansia: quali sono gli scenari possibili?
«Se Trump e i suoi consiglieri colgono questo momento per fare agli iraniani un’offerta che sia un po’ più consistente e convincente di una semplice offerta di resa, allora va bene, perché non si può immaginare o pretendere che l’Iran ricominci i colloqui di pace ammettendo di essere uno sconfitto e si presenti a quei colloqui con la testa cosparsa di cenere e dicendo mi arrendo: questo gli iraniani non lo faranno mai. Ora tocca a Trump decidere se vuole davvero riaprire un negoziato, da posizioni certamente di forza, perché comunque il programma nucleare – se c’era o se non c’era, qualunque cosa ci fosse – è stata riportata indietro per un periodo che viene valutato, a seconda degli esperti, perché qui stiamo parlando di congetture, tra i 9 mesi e i 5 anni, in realtà non lo sappiamo veramente, ma certo i danni ci sono stati; danni che però non cancellano le capacità maturate dagli iraniani nell’arricchimento dell’uranio e nella costruzione della bomba. Quindi, se Trump ha l’intelligenza politica di promuovere in questo momento la riapertura di un dialogo con il doppio vantaggio di poter anche imporre stavolta lui a Netanyahu la linea, perché ha dato prova a Israele di un’amicizia che nessun altro Presidente americano ha mostrato e quindi ha l’ascendente morale e politico per dire a Netanyahu: “Adesso fermati, basta, fermati a Gaza, fermati in Iran, adesso ci penso io”».
Secondo lei, quanto è forte e quanto è pericolosa questa alleanza tra Trump e Netanyahu?
«Se l’America accetta di essere portata al guinzaglio dal suo junior partner c’è veramente di che essere preoccupati, perché Netanyahu si è prefisso da vent’anni l’obiettivo di disarcionare il regime degli agli ayatollah, senza purtroppo porsi il problema di che cosa lo sostituirà e, a quanto pare, le passate esperienze a cui anche noi abbiamo partecipato in Medio Oriente e anche nel vicino Oriente, non sono servite a niente: il rovesciamento di Gheddafi, il rovesciamento di Saddam, il rovesciamento dei talebani non hanno fatto altro che produrre regimi anche peggiori. Quindi, il punto vero è che Netanyahu purtroppo ha in testa da vent’anni l’idea di ridisegnare il Medio Oriente cancellando il regime degli ayatollah. C’è anche una considerazione di politica spicciola e quotidiana: la guerra in Iran gli offre la chance di rimanere attaccato alla sua poltrona e al suo potere. L’America non può farsi dettare da linea da quest’uomo: se Trump riesce al contrario a dire a Netanyahu “adesso basta, ho bombardato Fordow, ho messo a posto il regime e l’ho ricondotto a più miti consigli, adesso fermati”, forse facciamo tutti un passo indietro dal ciglio del baratro su cui ci troviamo. Se questo non succede, non so che cosa accadrà».
E davanti alla notizia dell’attacco ai tre siti nucleari iraniani dell’altra notte, lei personalmente cosa ha pensato?
«Ho tremato, perché ho pensato che veramente Papa Francesco era stato profetico quando parlava di questa terza guerra mondiale a pezzi. Ho tremato perché appena è arrivata la notizia non era chiara quale sarebbe stata l’evoluzione: non era possibile immaginare quale potesse essere la reazione di Russia o di Cina perché questo non è un conflitto che vede in campo solamente l’Israele e l’Iran e l’America come alleato di Israele: ci sono due convitati di pietra che, per il momento, si stanno trattenendo e controllando, ma nel caso di una escalation della crisi, a quel punto, potrebbero entrare anche loro in gioco e allora veramente tutto sarebbe a rischio. Cina e Russia sono azionisti importanti di questa situazione: la Russia è in realtà l’unico amico dell’Iran che è gli rimasto in Medio Oriente dopo che gli altri personaggi su cui contava sono stati eliminati e fatti fuori a cominciare dalla Siria; per quanto riguarda la Cina, si sta costruendo proprio grazie all’Iran un’ampia fascia di influenza in Medio Oriente a cui non intende certo rinunciare, senza contare che l’80% del petrolio cinese arriva da lì. Quindi, ci sono interessi in gioco che vanno oltre il novero dei principali attori e coinvolgono attori che non compaiono ancora in scena, ma che sono lì e speriamo che non compaiano in scena. Dipenderà molto dalle decisioni che prenderà Trump, dalla sua capacità di richiamare i mastini della guerra».
La guerra in Ucraina secondo i piani di Putin doveva durare poche settimane e invece è ancora in corso, anche il conflitto in Medio Oriente si trascinerà a lungo?
«La verità è che si sa chi comincia la guerra, ma non si sa mai chi la finisce, come e quando. Il dramma, soprattutto in questa situazione, è che Netanyahu è entrato in guerra senza sapere qual è l’endgame, quale dovrebbe essere l’obiettivo delle due settimane di conflitto che ha annunciato. Tenuto conto che oggi siamo già a dieci giorni, quindi in realtà rispetto all’annuncio dell’inizio della guerra, fra tre giorni l’offensiva israeliana dovrebbe fermarsi: davvero si fermerà?».
E cosa potrebbe accadere?
«Speriamo che prevalga in America il partito isolazionista».
In questa situazione, secondo lei chi ha più interesse a fare la guerra?
«L’indicazione sta nell’identità della persona che ha cominciato questa guerra. Questa guerra l’ha cominciata Netanyahu: è chiaro che l’interesse principale è quello di Netanyahu, che sta perseguendo obiettivi che fanno parte del suo piano politico da vent’anni, ma che certamente non coincidono con gli obiettivi della stabilità e della pacificazione dell’area. Quello che Netanyahu ha in testa è ridisegnare il Medio Oriente con un assetto in cui Israele sia la potenza di gran lunga incontrastata e senza possibilità di sfida, senza possibilità che nessun altro attore medio orientale abbia la forza e la capacità di sfidare. Questo gli consentirebbe di risolvere la crisi palestinese a modo suo, cioè cancellando l’identità palestinese e cancellando anche i diritti nazionali palestinesi».
Allo stato dell’arte, secondo lei la guerra è un male necessario?
«No, assolutamente no: la guerra non era affatto necessaria. Tutti gli esperti concordano sul fatto che non è assolutamente vero che l’Iran fosse vicino alla bomba; al massimo, dicono quelli che sono più allarmati, poteva essere considerato vicino alla capacità di tentare un test nucleare, ma fra tentare un test nucleare e realizzare una bomba atomica ci passa molto tempo e molta capacità, ammesso che davvero l’Iran voglia realizzare questa bomba perché noi non lo sappiamo. L’unica cosa che sappiamo con certezza è che, dopo gli accordi con Obama, l’ordine di Kamenei era stato di sospendere il programma di weaponization, di realizzazione l’arma nucleare e noi non sappiamo se quell’ordine di sospensione è stato revocato oppure no, se davvero gli istituti nucleari iraniani si sono rimessi sulla strada dell’arma nucleare o no. Ripeto, i più allarmati parlano di una vicinanza alla capacità di un test nucleare, quindi non c'era veramente nessuna urgenza: si poteva ancora tentare la strada del negoziato e l’attacco di Netanyahu il 13 giugno, due giorni prima della ripresa dei colloqui in Oman, era evidentemente diretto a stroncare qualsiasi possibilità di negoziato».
Trump ha dismesso definitivamente la sua veste di pacifista, quella che aveva indossato nel 2015 presentandosi come uno che avrebbe messo fine alle guerre in corso?
«Sì, penso che possa mettere da parte il sogno del Nobel per la pace. In realtà, ha battuto svariati primati, compreso quello di essere il primo presidente americano della storia che bombarda gli impianti nucleari di un altro Paese, che è un dettaglio non irrilevante perché questa è una decisione estremamente azzardata: bombardare un impianto nucleare non è come bombardare una fabbrica di esplosivi. Non è casuale che per l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica continui a monitorare, allarmata, la possibilità che ci sia una diffusione di radiazioni dai siti nucleari. È stata una decisione estremamente rischiosa e pericolosa. È difficile che Trump possa continuare a presentarsi come uomo di pace: abbiamo capito che era molto più bravo a parlare di pace che a realizzarla: doveva fare la pace in 24 ore in Ucraina, doveva chiudere la partita di Gaza nel giro di due o tre giorni».
Non è andata proprio così.
«Ecco, è andata che Trump è il primo presidente americano a riportare direttamente in guerra il proprio Paese da George Bush. Quindi, è un primato anche questo, ma non nel senso che ci aveva raccontato lui. Questo naturalmente pone un problema di credibilità di Trump che, come è noto, è sempre stata piuttosto scarsa. Ma pone un problema a lui nella stessa base che lo ha portato al trionfo elettorale, che è una base in larga misura isolazionista, che non vuole un’America costretta a fare il poliziotto del mondo a costi ormai insostenibili e che l’ha votato proprio perché lui ha detto: “Noi penseremo agli affari nostri, l’Europa, il Medio Oriente, ma se la cavino da soli, ma facciano da soli”. Invece, è accaduto il contrario. Vedremo tra un anno, quando ci saranno le elezioni di midterm, come sarà valutato questo episodio su cui Trump si sta giocando la presidenza: se il suo azzardo va male e comincia a scorrere sangue americano, non glielo perdoneranno».
@RIPRODUZIONE RISERVATA