Giovani violenti, l’intervista alla psicoterapeuta Parsi: «Fanno così per sentirsi veri. Vivono nel virtuale»

15 Settembre 2025

L’analisi: «Colpiti dalla brutalità del web, trovano materiale distruttivo. Si sono ritirati lì, perdendo la capacità di dare un significato alle proprie azioni»

SULMONA. La terribile vicenda di violenza sessuale a Sulmona è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno sempre più diffuso che, inevitabilmente, porta con sé pesanti interrogativi sul sistema culturale ed educativo che vivono i ragazzi. La vittima ha 12 anni, uno dei presunti aguzzini 14. Giovani, anzi, giovanissimi che diventano protagonisti di storie a cui dovrebbero essere semplicemente estranei. Come può accadere? Per provare a rispondere, il Centro ha contattato Maria Rita Parsi, psicopedagogista e psicoterapeuta con più di cento pubblicazioni all’attivo. La sua disamina delle nuove generazioni è durissima: le istituzioni fondamentali che si occupano della crescita «sono state battute» da internet, fagocitate da una «violenza fuori controllo con cui i giovani sono in sempre in contatto». Da qui la totale «mancanza di empatia e di pensiero» dietro i loro gesti. A questa situazione che appare drammatica, però, si può ancora rimedio. La soluzione esiste: «Si chiama cultura».

Parsi, partiamo dal dato anagrafico: come si può essere coinvolti in vicende del genere a 14 anni?

«A 14 anni i ragazzi sono preadolescenti e non si possono valutare allo stesso modo di cinquant’anni fa. La loro è un’adolescenza ai tempi del virtuale, in un mondo di una violenza così pervasiva che per i giovani perde significato».

Che intende?

«Abbiamo televisioni locali e nazionali che non fanno che segnalare costantemente omicidi, femminicidi, incidenti stradali, guerre. Internet è inondato di violenza allo stesso modo. All’interno si trovano video di uccisioni, rapine e quant’altro. Siamo bombardati da queste immagini che, di per sé, sono già in grado di influenzare il pensiero di un adulto. Figuriamoci quello di una persona in crescita… A 12-13 anni ha già finito i giochi. Il fatto è che l’informazione forma il modo di pensare. E questo è il mondo a cui siamo esposti».

Si è rotto un meccanismo di controllo nella nostra società?

«Si è perso quel ruolo fondamentale nella crescita svolto da due istituzioni primarie come genitori e insegnanti, che non educano più. Sono state battute dal virtuale, perché non possono controllarlo. Il ministro Valditara ha fatto bene a mettere il divieto ai telefonini durante le ore di lezione: almeno si dà ai ragazzi una tregua di 4-5 ore. Questo mondo virtuale fuori controllo non permette più ai ragazzi di capire il significato della violenza, delle azioni aggressive e distruttive».

Allora internet è il male assoluto?

«No. È uno strumento potenzialmente eccezionale, ma che è usato in modo così becero da essere distruttivo. Costruisce un mondo in cui il brutto prevale sul bello. Per aiutare i ragazzi dobbiamo educarci prima di tutto noi, come adulti, al mondo del virtuale e sapere l’uso che loro ne fanno. Il passo successivo è educare insegnanti e famiglie. E la stessa scuola dovrebbe essere molto di più di una fabbrica di voti, un luogo dove insegnare a questi ragazzi la socializzazione, l’empatia. Infine, serve anche un controllo legale su internet».

C’è una parola che descrive le nuove generazioni?

«Nel 2017 scrissi un libro chiamato “Generazione H”, cioè hikikomori, ragazzi che si ritirano nella vita virtuale. Una dinamica che, per contrasto, porta a una moltiplicazione della violenza. Gli atti che vediamo compiere oggi sono la cartina tornasole di ciò che questi giovani vedono, di ciò che patiscono. Sono cattivi nel senso della sua radice latina captis, che significa prigioniero».

Prigionieri di cosa?

«Di un mondo virtuale paurosamente violento, che è quello con cui sono principalmente a contatto e che elimina qualsiasi empatia. Il mondo vero, quello reale, non lo conoscono più. La confusione è tale che il virtuale è così potente da far percepire la vita reale come una sorta di film. Questo li fa pensare di poter uccidere o essere uccisi e poi rialzarsi in piedi come se nulla fosse. Ma c’è anche un altro aspetto: la violenza per loro è un modo per uscire dalla sospensione della virtualità ed entrare in contatto con la realtà. Come una sorte di sindrome di Stoccolma».

Spieghiamo ai lettori di che si tratta.

«La situazione della sindrome di Stoccolma è quella del rapporto tra rapito e rapitore, in cui il primo ha così paura di perdere la vita da “innamorarsi” del rapitore anche per il più piccolo gesto positivo. Allo stesso modo, la violenza per questi ragazzi serve a tutelarli dalla criminalità virtuale e a renderla umana, fisica. È una forma perversa di comunicazione con il reale».

Oltre alla mancanza di empatia, in queste storie stupisce l’atteggiamento “predatorio” dei carnefici nei confronti delle vittime. Cercano sempre persone fragili, in difficoltà.

«Cercano la fragilità perché non è nient’altro che la rappresentazione di loro stessi, del loro nemico interno, solo proiettato al di fuori di sé. Dentro sono fragili, deboli e sofferenti, ma lo negano. E allora quando vedono una persona in difficoltà l’attaccano, la schiacciano, perché quella fragilità, in realtà, non è nient’altro che una proiezione della loro».

La situazione che descrive è disarmante. È tutto da buttare?

«Non è tutto fallimentare. I ragazzi non sono tutti così e dobbiamo evitare di generalizzare. Questi orrendi fatti di cronaca che sentiamo oggi derivano dal fatto che dietro di essi non c’è nessun pensiero, nessuna cultura».

Investire sulla cultura è la soluzione?

«I greci dicevano: “La cultura è tutto, la cultura è per sempre”. Servono laboratori di formazione educativa, sport, e cultura nelle loro tante forme. Le scuole devono diventare veri poli culturali. È fondamentale».

E le famiglie degli autori di questi atti? Quanto sono responsabili?

«Sono responsabili, non colpevoli. Il punto è che sulle famiglie, come sulla scuola, non si investe più. Manca un progetto generale, capace di vedere oltre. Sa, quando dico queste cose, spesso mi sento rispondere “è inutile, tanto internet non si può limitare”, oppure “è impossibile educare le famiglie”. A me viene in mente una frase di Oscar Wilde».

Cioè?

«Diceva: “Una mappa del mondo che non prevede il paese dell’utopia non merita nemmeno uno sguardo”. Se è utopia questo, che si investa sulla scuola, sulla famiglia, sulla cultura, non abbiamo scampo. Dico sempre “Armare i cervelli, non gli eserciti”. La cultura è l’unica risposta».

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