«La corsa al riarmo? Una spesa folle e vi spiego il perché», l’editoriale di Lilli Gruber

Se il diktat Usa avallato dalla Nato venisse rispettato, l’Italia passerebbe in 10 anni dagli attuali 45 a 145 miliardi di euro. L’Europa ha oggi la responsabilità di tenere la barra dritta
ROMA. Un buon giornalista ha due qualità essenziali la curiosità e lo scetticismo. La curiosità spinge ad andare a cercare i luoghi inesplorati, i testimoni dimenticati, le cifre ignorate, mettendo in discussione stereotipi e preconcetti. Lo scetticismo invita a diffidare di slogan, propaganda e – nel nostro mondo dominato dalle immagini e dai fake – anche di quello che crediamo di vedere, di toccare con mano. Il buon giornalista è un decodificatore instancabile di ciò che legge, di ciò che vede e sente, di ciò che gli viene riferito. E, per evitare che curiosità e scetticismo diventino una prigione tra le cui mura rimbalzano solo dubbi, ha anche un’altra arma da mettere in campo: la conoscenza.
Lo studio del passato lontano o recente, delle esperienze parallele in angoli remoti del mondo, illumina il presente e aiuta a comprendere e agire. Tutti i despoti del mondo lo sanno bene: il dominio sui corpi passa da quello sulle menti. La prima regola del loro manuale, infatti, è sbarazzarsi della stampa libera, colpire le università, delegittimare gli intellettuali (e magari incarcerarli o ucciderli). Oggi la manipolazione dell’opinione pubblica e l’assalto contro il sapere hanno assunto dimensioni preoccupanti, persino nella prima democrazia del mondo, l’America. E c’è più che mai bisogno della voce di tutti coloro che credono in un’informazione chiara, diretta, imparziale. Per questo, quando mio marito Jacques mi ha parlato del suo progetto di un pamphlet contro la guerra, l’ho subito incoraggiato. Jacques non ha mai amato i riflettori.
È per via della sua esperienza professionale: ha lavorato per trent’anni sui fronti di guerra come corrispondente dell’Agence France-Presse (Afp) e la prassi, per i giornalisti di agenzia, è l’anonimato, perché in generale il loro nome non arriva al grande pubblico. Questo a Jacques andava benissimo: meno visibilità, più libertà di movimento. Quando l’ho incontrato a Baghdad, nel 1991, era un uomo che conosceva tutti e andava dappertutto. Oltre a essere discreto, Jacques è silenzioso. Parla poco, ascolta molto e interviene quando è sicuro di quel che vuole dire e di come dirlo. È un’abitudine acquisita nella lunga carriera per l’Afp in Paesi dove il silenzio è d’oro: in Africa centrale e occidentale, poi in Iran, Libano, Siria, Iraq, Croazia, Bosnia… e anche a Washington, che pur non essendo un fronte di guerra può essere un nido di vipere.
Oggi è autore e regista di documentari, sempre su argomenti «facili»: i danni irreparabili causati dalle armi all’uranio impoverito; le menzogne del potere legate alle guerre contro Saddam e contro Gheddafi; di recente gli affari sporchi della ’ndrangheta. In venticinque anni di matrimonio, posso dire di non essermi mai annoiata ad ascoltarlo parlare dei suoi progetti. Ed è stato sempre un partner imprescindibile per i miei. Nel lavoro di preparazione, nei viaggi, nelle interviste, nelle ricerche e letture per i miei libri sui temi più caldi – dall’Iraq all’Iran, dall’America al Sud Tirolo, dal femminismo alla pornografia – Jacques è sempre stato al mio fianco. Siamo da decenni un «dream team».
E il libro di Jacques è urgente e necessario quanto tutti quelli su cui abbiamo lavorato insieme. Jacques, che ha vissuto la guerra fianco a fianco con le popolazioni colpite, a N’Djamena, Teheran, Beirut, Baghdad, Mogadiscio, Sarajevo. Ha visto amici uccisi, costretti a fuggire dalle loro case, messi di fronte alla scelta tra salvare se stessi o la propria famiglia. Per lui la guerra non è un concetto astratto. È sangue e merda, come racconta con efficacia nel suo libro. E deve sparire dalla faccia della Terra. Perché il ricorso alla violenza istituzionale è una terribile sconfitta dell’umanità, un arretramento della Storia, un ritorno alla legge della giungla.
Le analisi, i dati e i racconti che troverete nel libro di Jacques tracciano un quadro chiaro non solo della verità di ogni conflitto, con le sue conseguenze fisiche e psicologiche, ma anche dei giganteschi affari che stanno dietro al mercato bellico. E oggi, mentre il rumore delle esplosioni e degli stivali in marcia si fa sempre più forte e più vicino, tutti dobbiamo capire bene che cosa significa questo suono inquietante. La guerra in Ucraina, nel cuore stesso dell’Europa, e la sanguinosa devastazione operata da Israele a Gaza non sono solo tragedie terribili ma elementi di destabilizzazione globale. L’America di Trump, mentre non sa o non vuole opporsi con efficacia a Putin e a Netanyahu, ricatta un’Europa più fragile e divisa che mai, imponendo, oltre a dazi sconsiderati, un riarmo a tappe forzate ancora più dannoso.
È incredibile pensare che l’Europa si prepari a investire 800 miliardi di euro per quella che non è nemmeno la costruzione di una difesa comune – che ritengo invece molto opportuna – bensì una corsa agli armamenti dei singoli Stati nazionali. Uno sperpero di denaro pubblico inconcepibile mentre ovunque, e particolarmente in Italia, i servizi sanitari vanno in crisi, la scuola non ha i fondi necessari per istruire e innovare, i ponti crollano, i treni si fermano (quando ci sono) e le città soffocano nel traffico e nell’inquinamento. È iniquo pensare di destinare a bombe, caccia e droni fondi che dovrebbero essere investiti per ridurre disuguaglianze sempre più inaccettabili, per dare sollievo a povertà sempre più estese, per gestire in modo razionale ed efficace – e non costruendo cattedrali nel deserto in altri Paesi, vedi Albania – flussi migratori peraltro generati, spesso, proprio dai conflitti.
Queste sono le emergenze, non rimettere insieme in pochi anni un’industria della difesa: cosa impossibile, e infatti eccoci pronti a fare shopping dai giganti del settore. I nostri «amici» americani, che considerano i loro alleati europei come mucche da mungere. L’Italia è un caso esemplare, con la sua flotta di più di cento F-35, già consegnati o ordinati al prezzo di più di 100 milioni di dollari l’uno. Se il diktat americano delle spese per la difesa al 5 per cento, recentemente avallato dalla Nato, dovesse essere rispettato (cosa di cui dubito) il budget militare del nostro Paese passerebbe in dieci anni dagli attuali 45 miliardi di euro (circa il 2 per cento del Pil, di cui 35 per la difesa e 10 per la sicurezza) a 145 miliardi (100 per la difesa e 45 per la sicurezza). A meno di dichiarare lo stato di guerra, non vedo dove i governi Meloni e i successivi potranno trovare queste somme colossali.
Ed è proprio questo il pericolo: che l’avidità di chi sulla violenza costruisce le sue fortune ci trascini dove a nessun costo vorremmo andare. L’Europa ha imparato sulla propria pelle che in guerra perdono tutti. Dopo due devastazioni mondiali abbiamo ricostruito il nostro continente sul principio dell’unione e della collaborazione tra i popoli. Sappiamo nel più profondo di noi stessi, nella memoria delle nostre famiglie e comunità, che lo scontro non porta a nulla. Solo la cooperazione è garanzia di prosperità e di libertà per tutti. Eppure oggi il discorso pubblico è sempre più militarizzato. Ovunque in Europa, e in particolare in Germania, siamo tornati a parlare di riarmo, di nemico alle porte, di manovre ai confini. È un linguaggio ormai del tutto normalizzato. La militarizzazione delle parole va di pari passo con la militarizzazione del pensiero.
E, come racconta il libro di Jacques, con quella dello spazio pubblico. Più uniformi vediamo nelle strade, come accade nell’America di Trump, più ci convinciamo che corriamo un pericolo esistenziale. Diventiamo più pronti a prestare orecchio a chi ci parla di elementi da «eliminare», all’interno o all’estero: che siano i nazisti ucraini, i terroristi palestinesi, i migranti criminali. In un mondo in fiamme le luci sono forti e le ombre sono nere e non c’è posto per le sfumature, per il meticciato delle pelli e delle idee. Ci siamo noi contro loro. I buoni e i cattivi. Il compagno da salvare e il nemico da uccidere. E la nostra umanità annega in un oceano di orrori.
Ma noi siamo una società civile e vogliamo continuare a esserlo. Non possiamo assistere impotenti mentre questa intossicazione di violenza avvelena tutti i settori della vita privata, sociale e politica. Nelle strade, sui social, nella vita professionale, nello scambio quotidiano siamo sempre più incapaci di dialogo, sempre più rissosi, sempre meno aperti a capire le ragioni altrui, a studiare e ad ascoltare le voci critiche, a metterci in discussione. Questo è il morbo che, se non corriamo ai ripari, ci ucciderà, assieme al cancro delle disuguaglianze che gli ha preparato il terreno.
L’Europa è la nostra sola possibilità di salvezza: il sogno grazie a cui abbiamo costruito pace e prosperità su un terreno intriso di sangue. Nel mio lavoro al Parlamento europeo, un’esperienza molto preziosa, ho toccato con mano il senso e la grandezza del nostro progetto comune. Ma oggi questa grandezza si è appannata, come ha osservato con forza anche Mario Draghi, uno degli italiani più apprezzati sul piano internazionale, presentando un rapporto sullo sviluppo dell’Ue che ci chiama a uno sforzo straordinario, adeguato a tempi eccezionali.
L’ex presidente della Bce ha a più riprese suonato l’allarme: «Il nostro modello di crescita sta svanendo. Le vulnerabilità stanno aumentando. E non c’è un percorso chiaro per finanziare gli investimenti di cui abbiamo bisogno. E ci è stato ricordato, dolorosamente, che l’inazione minaccia non solo la nostra competitività ma la nostra stessa sovranità». L’Europa ha oggi la responsabilità di tenere la barra dritta, in un mondo che sembra aver perso la rotta.
Deve prendere le distanze dal percorso dittatoriale su cui è avviata l’America di Trump. Deve ritrovare con la Russia una piattaforma di interessi comuni che mostri a Putin il vantaggio di porre fine a un’aggressione medievale. Deve assumersi le sue responsabilità nei confronti di Israele e dei palestinesi. Deve usare il suo peso economico e riconquistare un’autorevolezza politica, parlando con una voce unica e forte, investendo di più e meglio e prodigando ogni sforzo diplomatico per costruire alleanze, sinergie, progetti di cooperazione. Vasto programma. Ma l’alternativa è l’inferno.
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