L’intervista a Giulio Borrelli: «L’11 settembre a New York raccontai l’America ferita, ma il terrorismo c’è ancora»

11 Settembre 2025

II sindaco di Atessa era corrispondente per la Rai durante gli attentati del 2001. Il giornalista: «A Manhattan l’orrore delle persone che si lanciavano dalle torri»

ATESSA. Prima dell’11 settembre 2001, Manhattan per un europeo era quella città in bianco e nero che Woody Allen aveva celebrato nel suo capolavoro del 1979. Nella sua carrellata di immagini quotidiane, era naturale che si stagliassero all’orizzonte le Torri Gemelle con i loro uffici, il via vai del traffico ai loro piedi. Ventidue anni dopo, quelle torri non esistono più. E a ventiquattro anni da quell’apocalisse, con 2.977 persone uccise, il mondo continua a parlare dell’11 settembre 2001 come l’antonomasia di una tragedia globale: due aerei di linea colpiscono il cuore di una città dall’altra parte dell’oceano, ma tutto il mondo cambia. Giulio Borrelli, oggi sindaco di Atessa, era lì come corrispondente di Rai 1, facendosi strada nelle nebbie e nei fumi della città e catturando le immagini che hanno segnato un’epoca.

Borrelli, il primo ricordo?

«Ero negli uffici Rai di New York, dove ero da un anno capo dell’ufficio di corrispondenza».

Che faceva?

«Preparavo il materiale per un viaggio dell’allora presidente Bush in Cina. I monitor dell’ufficio, quel giorno, erano accesi. Erano le 8.45».

Arriva il primo aereo.

«E pensiamo a un incidente».

La prima cosa che ha fatto?

«Ho avvisato gli uffici a Roma per trasmettere la notizia. Poi è arrivato il secondo aereo…».

Cosa ricorda di quell’attimo?

«Quando è diventato chiaro che si trattava di un attacco, ci siamo precipitati in strada correndo verso Downtown in un mare di fumo e polvere».

Le persone, però, correvano nella direzione opposta.

«Gli uomini della Borsa scappavano verso il centro della città. Noi dovevamo arrivare alla punta estrema di Manhattan».

Che immagine si profila mentre vi avvicinate?

«Più che un’immagine, un odore…».

Quale?

«Polvere e gesso misto ai cadaveri che si sommavano in quei minuti. Un’aria di morte respirata per giorni. I più fortunati di noi hanno avuto problemi respiratori, ma qualcuno si è beccato il cancro».

Si scavava a mani nude.

«Al punto che il sindaco di New York dell’epoca, Rudolph Giuliani, lanciò un messaggio di aiuto chiedendo i guanti per i soccorritori. Ne arrivarono a vagonate, ma per alcuni fu tardi».

Qual è l’immagine chiave di quel momento?

«Dei puntini microscopici che scendono dal centesimo piano delle torri e scendendo diventano sempre più grandi, diventano figure umane. Quando ne potevi vedere la forma si schiantavano a terra».

Molti altri morirono nell’edificio.

«Per chi si trovava ai piani più alti si trattava di scegliere in pochi secondi se morire carbonizzati tra le fiamme o lanciarsi nel vuoto. Circa settanta di loro fecero così».

Poi ai colleghi di Roma che disse?

«In diretta tv mi sbilanciai a dire che l’America avrebbe vissuto quell’attacco come una guerra. E che avrebbe reagito».

Risposta?

«Mi dissero che quello non era un atto di guerra e che sarebbe scoppiata al più un’operazione di polizia internazionale».

Del resto il volto dell’America è cambiato lì.

«Un attacco in casa loro non se l’erano mai ritrovati, la reazione era scontata. Dissi: “chiamatelo come volete, l’America reagirà”. Non mi diedero più la parola».

La storia le ha dato ragione.

«Un paio di giorni dopo Bush si fa riprendere sulle rovine ancora fumanti di Ground Zero, dove sorgevano le torri. Ha una mano sulla spalla di un anziano ex vigile del fuoco che ha prestato servizio per liberare i corpi dalle macerie, con l’altra stringe un megafono. Davanti a lui un oceano di persone. Grida: “Mi sentite? Non preoccupatevi, i nostri nemici ci sentiranno presto. Questa è una guerra”».

Lei era ancora lì?

«Siamo rimasti bloccati a lungo dopo gli attacchi, perché oltre agli aeroporti furono bloccati tutti i ponti di Manhattan».

Cosa imparò dell’America?

«Una brava giornalista del posto mi rimproverò: “Voi non capite niente degli Stati Uniti”. Aveva ragione».

Che intendeva?

«Per noi, diceva, esistono solo New York e Los Angeles, la costa atlantica e quella del Pacifico. Invece l’America vera è quella interna, profonda. Lì non amavano molto New York…».

Perché?

«La vedevano come la patria dei vizi, della perdizione. Ma alla fine ci fu la fila per andarla a vedere».

Giuliani spinse molto in quel senso.

«Lui diceva che l’unico aiuto concreto per New York era andare nei suoi ristoranti, camminare per le sue strade. Insomma, continuare a vivere».

Funzionò?

«Sì, perché si riversarono centinaia di migliaia di persone per andarla a vedere. Ma l’America non fu più la stessa…».

Cosa cambiò?

«Il mondo vide per la prima volta quel colosso in ginocchio: prima dell’11 settembre gli Stati Uniti erano un posto dove pernottavi in un motel senza che nessuno ti chiedesse nulla, in aeroporto potevi arrivare all’ultimo minuto e mostrare solo il biglietto d’imbarco. Tutto finito».

Ma allora non la stupisce che le primarie dei Democratici a New York le vince Zohrab Mamdani, socialista di fede islamica?

«Allora non ha capito neanche lei: New York non è l’America».

Però è un segnale che gli umori sono cambiati.

«Non sono convinto. New York è sempre stata, al netto di qualche eccezione, una città a maggioranza democratica. E non penso che quello di Mamdani sia un modello perseguibile…».

Perché?

«I Dem devono ritrovare una leadership progressista illuminata, dando fiducia alla working class e guardando alla fascia moderata e centrista, dei colletti bianchi, dei militari, dei diplomatici, degli intellettuali...».

Dove hanno sbagliato?

«Dopo l’era Clinton hanno continuato a martellare con gente di quel ceppo. Prima la moglie, poi Biden».

Dimentica Obama.

«Lui ha cercato un equilibrio tra le parti ma ha lasciato profonde insoddisfazioni, soprattutto se pensa al riscatto mancato delle classi subalterne: gli operai del Midwest, la popolazione nera. Si è stagnata la scala sociale, la globalizzazione fuori controllo e la paura dell’immigrazione hanno spostato l’ago della bilancia verso Trump».

Ma il trumpismo resisterà a Trump?

«Io credo che l’America sia un paese di continui sconvolgimenti, capace di cambiare pelle tante volte. Lo farà ancora».

Oggi all’orizzonte si profila il nemico cinese, serve un leader di peso. In questo ci vede un parallelismo con Bush?

«No, all’epoca tu avevi davanti un gruppo terroristico che aveva già compiuto altri attacchi, come quello alle ambasciate americane in Africa. Era un pericolo clandestino».

E quello cinese che pericolo è?

«Parliamo di uno stato organizzato con le dimensioni di un continente. Comunista ma con un’economia da regime capitalista, orientale ma profondamente occidentalizzato. Una contraddizione in termini, eppure eccolo lì».

Perché spaventa?

«Perché è un paese che ha lentamente investito molto nel suo settore militare, nell’automotive con l’elettrico di cui è leader indiscusso. Giovani cinesi in tutto il mondo occidentale studiano e apprendono il nostro know-how e poi tornano in Cina e lo mettono al servizio del Paese».

Gaza invece è la culla del nuovo terrorismo?

«Come diceva Andreotti, se uno vivesse nei campi profughi dei palestinesi non potrebbe che diventare un terrorista. Insomma, è chiaro che è così…».

Pochi giorni fa l’attentato sul bus di Gerusalemme.

«Siamo nel pieno del sonno della ragione. Israele prosegue nella sua lotta ai vertici di Hamas anche fuori dai territori che gli sono assegnati. Ovunque si trovi, il nemico viene trovato, colpito, sterminato».

Quindi non c’è soluzione su quel fronte?

«Nel 2000, io ero appena arrivato a New York, Clinton propose gli accordi di Camp David. Parliamo dei tempi di Barak e Arafat, i due leader di Israele e Palestina».

Un momento spartiacque.

«Sì, sembrava profilars un dialogo. Non fu così, voglio dire soprattutto per via dei ripetuti attacchi terroristici del fronte palestinese».

Da questo punto di vista, come vede l’azione di Israele degli ultimi due anni?

«Inaccettabile perché sta cercando di fare piazza pulita di Palestinesi, fuori controllo. Ma non dimentichiamoci che Hamas ha nel suo statuto quello di eliminare lo Stato Ebraico. Non c’è dialogo».