L’editoriale

Lo striscione della vergogna e l’esempio pacifista di Aviva

7 Ottobre 2025

Sette ottobre, l’editoriale del Direttore: «Oggi in questo anniversario luttuoso piangiamo le vittime di Hamas come ieri e domani piangeremo le vittime di Gaza»​​​​​​

Lo avete visto, per caso? Quello striscione sul 7 ottobre è una vergogna. Voglio raccontarvi qualcosa di questo striscione che era nascosto in mezzo ad altri mille, ma c’era. E anche raccontarvi qualcosa di una donna israeliana, che fu presa in ostaggio da Hamas, e che si chiama Aviva Siegel. Vorrei riuscire a trarre da queste storie due lezioni potenti.

Una premessa. Chiunque abbia letto questo giornale, da quando lo dirigo io, sa bene la linea che abbiamo tenuto, in modo trasparente e quasi ossessivo sulla guerra israelo-palestinese. Abbiamo dato voce a tutte le opinioni sul conflitto, di ogni segno e colore, ma spiegando anche con chiarezza ai lettori quale idea abbiamo su quello che sta accadendo a Gaza. Ovvero: ciò che il governo di Bibi Netanyahu sta mettendo in scena in questi mesi è una feroce guerra asimmetrica contro i civili. Una guerra impari: uno dei tre eserciti più forti al mondo impegnato contro donne e bambini, l’intera Striscia distrutta nelle sue infrastrutture all’83%, 67mila morti, e dopo due anni di guerra i terroristi ancora in armi a combattere. Per questo abbiamo salutato e raccontato con un sentimento di simpatia la grande mobilitazione per la pace a Gaza che ha attraversato l’Abruzzo, il Paese, l’Europa. Ma proprio per questo pensiamo che sia necessario dire chiaramente due cose, dopo la straordinaria manifestazione di un milione di persone a Roma sabato scorso: 1) È un bene che gli stessi manifestanti abbiano contestato e insultato (per tutto il corteo!) i violenti e gli incappucciati che volevano infiltrarsi tra le loro fila. E soprattutto 2) Sì, non c’è dubbio. Quello striscione in testa al corteo era ed è una vergogna, una macchia che non si può nascondere sotto un tappeto: non era la bandiera del milione che si sono ritrovati dietro quella pattuglia (senza neanche sapere cosa ci fosse scritto davanti). Era il vessillo di una minoranza cieca che, guidata dalla rabbia ha scritto uno slogan orribile: “7 ottobre giornata della Resistenza palestinese”.

Ebbene, il 7 ottobre in Israele sono stati uccisi 1.200 innocenti. Soprattutto civili. Donne, anziani, bambini, ragazzi che partecipavano ad un festival musicale. Questi morti sono vittime di tutti, non di una sola parte. Sono vittime nostre: l’immagine che molti cercano di imporre, quella di una guerra in cui ognuno piange i suoi morti è la prima grande falsificazione di questi anni. Io piango le vittime israeliane esattamente come piango le vittime palestinesi, e in questo non c’è nessuna contraddizione. Non mi faccio sedurre da nessun appello alla Guerra Santa, al gioco di chi vuole svilire le vittime, di una parte o dell’altra. La Resistenza si fa contro gli eserciti occupanti, contro i militari, come accadde contro i nazisti durante la Seconda guerra mondiale: non si fa sparando su chi non c’entra nulla, come ha fatto Hamas il 7 ottobre. Quindi, chi spara nel mucchio è semplicemente un terrorista. Quello di Hamas è stato un criminale atto di terrorismo contro degli inermi. Fra l’altro bisogna aggiungere: queste vittime, prese sparando al buio, erano in gran parte persone generose che, vivendo nei territori di confine, avevano aiutato il popolo palestinese. Cioè giovani Cooperatori, anziani pacifisti, uomini e donne che contro il parere dei loro governi aiutavano la gente di Gaza, e soprattutto i loro bambini, magari accompagnandoli in ospedale per le cure. È curioso che il tentativo ideologico di queste ore sia quello di dividere il mondo tra due minoranze assassine: quella di coloro che considerano un atto di Resistenza sparare su dei civili israeliani, e quella di coloro che ritengono sia legittimo – in nome di queste vittime – sparare contro dei civili palestinesi. L’esercito di Tel Aviv, che possiede la più grande intelligence del mondo, non può accettare l’idea di colpire e bombardare nel mucchio, esattamente come fanno i terroristi. Le democrazie non si possono difendere con i metodi di chi pratica la lotta armata. Ecco perché oggi in questo anniversario luttuoso piangiamo le vittime di Hamas, come ieri e domani piangeremo le vittime di Gaza. So che qualcuno dice ai pacifisti: ma come? Andate in piazza per i Palestinesi, e per questi 1.200 morti non dite nulla? Al contrario: se il 6 ottobre del 2023 avessimo saputo cosa sarebbe accaduto il giorno dopo, se potessimo tornare indietro nel tempo, saremmo scesi in piazza per tutti quei caduti. Purtroppo tutti noi, come il resto del mondo, come lo stesso governo di Israele che avrebbe dovuto proteggerli, abbiamo scoperto le vittime del 7 ottobre solo dopo che erano state uccise. Mentre adesso, ogni giorno, vediamo e leggiamo le storie di coloro che a Gaza e in Palestina moriranno domani. Il mondo contemporaneo è un villaggio di vetro, trasparente, attraversato da immagini e notizie. Il grande moto di indignazione che adesso scuote l’Europa è prodotto dalla circolazione di queste notizie che scavalca ogni censura. Ho imparato a conoscere i meccanismi della disumanizzazione e dell’odio studiando la letteratura dell’Olocausto, girando i campi di sterminio di mezza Europa, dalla Risiera di San Sabba ad Auschwitz, da Treblinka a Majdanek, dove il memoriale è costituito da un unico, enorme silos di ceneri umane, alto come un palazzo. Non potrò mai dimenticare cosa ho provato quando ho sfiorato con la mano quella cenere. È qualcosa che porto con me. Anni dopo, raccontando le vittime del terrorismo in Italia, ho ritrovato quegli stessi meccanismi di educazione all’odio nella guerra a bassa intensità degli anni di piombo. Mi sono ritrovato (da cronista) in una incredibile giornata, a Madrid, nell’anniversario della Strage di Atocha: tutte le vittime, di tutti i terrorismi di mezzo secolo di storia. Dagli irlandesi, ai baschi, ai gambizzati delle Brigate rosse. Brividi.

In ogni tempo e luogo la cassetta degli attrezzi dell’odio è uguale. Disumanizzare, sfregiare, umiliare l’umanità dei propri simili, trasformarli in UnterMenschen, ovvero, come dicevano i nazisti, sub umani: è questo il congegno primario nel mondo dei sommersi decritto da Primo Levi. Solo dopo aver disumanizzato il tuo nemico puoi distruggerlo. Gli eserciti, il potere, la disperazione, le ideologie fanatiche, le armi sono il lubrificante di questo congegno mortale. Ecco perché oggi, anche con una sola di quelle 1.200 storie, voglio chiudere questo editoriale raccontandovi di una donna che Francesca Mannocchi ha intervistato per il nostro programma su La7, In Onda: è lei la donna delle prime righe di questo articolo, il suo nome è Aviva Siegel. Aviva è stata rapita insieme al marito Keith, liberata dopo un anno, ma con l’angoscia di sapere che lui restava nei tunnel. Aviva aveva speso una vita soccorrendo chi aveva bisogno, israeliano o palestinese, vecchi o bambini. Appena uscita ha preso il ruolo più scomodo: denunciare la guerra, contestare le scelte del suo governo, chiedere due popoli e due Stati. «Io voglio la pace sia per gli israeliani che per i palestinesi». Vorrei dire a chi ha dipinto quello stupido striscione con i pennelli colorati intinti nell’odio di Hamas. Non so ancora se vinceranno i tifosi dello sterminio che si nascondono dietro la divisa dell’Idf o quelli con il cappuccio nero di Hamas. Ma so che sconfiggeremo l’odio solo quando riusciremo a connettere i nostri cuori con quello di Aviva, di Keith (che è tornato anche lui, ferito ma è tornato). La forza di chi ritorna vivo dall’inferno, e non odia, ci illumina. Ed è più potente di qualsiasi veleno.