Molinari: 72 ore decisive, ma la crisi internazionale potrebbe durare molti anni

L’analisi dell’editorialista: «Ora l’America vuole creare una convergenza tra tutti i suoi maggiori alleati in Medio Oriente, a partire dall’Arabia Saudita»
Una «strategia concordata», decisa a tavolino già da mesi contro un nemico comune: gli Usa di Trump e Israele di Netanyahu uniti per fermare l’Iran e il suo programma nucleare. L’attacco delle ore 1.57 nella notte tra sabato e domenica, con le bombe “bunker buster” sganciate su tre siti nucleari dell’Iran, non è una sorpresa per Maurizio Molinari, firma del giornalismo italiano e già direttore di La Repubblica: era soltanto questione di giorni, osserva Molinari, tutto era stato pianificato ancora prima che Trump fosse eletto alla Casa Bianca il 20 gennaio scorso. E adesso? Molinari analizza lo scenario geopolitico internazionale e dice che è cominciata «una fase di grande instabilità che potrà durare molti anni dovuta al fatto che le maggiori potenze, gli Stati Uniti, la Russia e la Cina, vogliono tutte modificare l’ordine di sicurezza internazionale ma in maniere diverse e in competizione fra loro». Gli Usa, segnati dal motto «Make America great again» strillato dal cappello rosso del presidente Trump nella notte delle bombe, e Israele, con lo slogan «Per costruire una pace sicura» firmato da Netanyahu, tengono il mondo con il fiato sospeso. E Molinari lancia un messaggio all’Europa: «È importante, in questo quadro di incertezza globale, che l’Europa sappia agire con una voce unica, forte da un punto di vista politico e credibile da un punto di vista militare».
Direttore, si aspettava l’attacco all’Iran?
«L’attacco all’Iran è frutto della strategia concordata tra Trump e Netanyahu dal giorno dell’entrata di Trump alla Casa Bianca, basata sulla volontà di fermare il programma nucleare iraniano. In più occasioni, i due leader avevano affermato questa comune volontà. Di fronte al rapporto dell’Aiea, che ha attestato l’arricchimento dell’uranio al 60%, Netanyahu ha iniziato l’operazione militare e ora Trump la sta continuando. L’intesa tra i due è di terminare l’operazione militare appena l’Iran tornerà a sedersi al negoziato dove la richiesta americana è di porre fine all’arricchimento dell’uranio».
Quanto è grave la situazione internazionale adesso?
«La situazione adesso dipende dalla scelta che farà Ali Khamenei. Ali Khamenei ha di fronte a sé un bivio: può decidere di tornare al tavolo negoziale e salvare il suo regime o può decidere di attaccare le truppe americane in Medio Oriente e decretare la fine del suo regime. In ultima istanza, cosa deciderà Ali Khamenei nelle prossime 72 ore a segnare il destino della Repubblica Islamica dell’Iran».
È un punto di non ritorno?
«È sicuramente un punto di non ritorno per il programma nucleare iraniano. L’Iran è l’unico paese non nucleare che arricchisce l’uranio al 60%, ben lontano dalla soglia del 4% del civile e molto vicino al 90% del militare e questa sua decisione ha innescato la convergenza fra Stati Uniti, Europa e Paesi sunniti nel sostenere, nelle maniere più differenti, l’iniziativa israeliana: questo programma nucleare dopo l’attacco militare americano a Fordow, Natanz e Isfahan di fatto è bloccato».
Qual è la strategia geopolitica degli Stati Uniti e che cosa c’è dietro l’attacco all’Iran?
«La strategia americana è quella di fermare il programma nucleare iraniano e, attorno a questo, creare una convergenza fra tutti i suoi maggiori alleati in Medio Oriente, primo fra tutti l’Arabia Saudita al fine di trasformare il Medio Oriente in un’area di prosperità e sicurezza attorno all’intesa fra Paesi sunniti, con le loro risorse energetiche, e Israele, con le sue risorse tecnologiche, per creare un ponte geo economico fra l’Asia del Sud, l’India e i mercati dell’Europa occidentale, quindi degli Usa con un corridoio di sviluppo e infrastrutture che è, di fatto, l’alternativa alla via della seta che i cinesi vogliono realizzare avendo come alleato più importante e strategico l’Iran.
Nel 2015 Trump si è presentato come un pacifista di destra e l’opposto di un guerrafondaio, adesso dieci anni dopo cosa è successo?
«Trump ha vinto la campagna elettorale del 2024 promettendo la fine di conflitti infiniti con la formula “pace attraverso la forza”. Che cosa significa? Significa dimostrare la forza militare americana al fine di pacificare le singole situazioni di conflitto, questo è ciò che Trump, fino a questo momento, ha tentato di fare in Ucraina senza successo e ciò che adesso sta tentando di fare in Iran grazie alla convergenza con lo Stato di Israele. Usare il termine pace attraverso la forza da parte di Netanyahu significa aderire a un tema strategico di proiezione dell’America nel mondo che appartiene a Donald Trump».
Quali conseguenze si aspetta adesso?
«Il primo e fondamentale interrogativo è se l’Iran attaccherà le truppe americane nella regione e soprattutto in Iraq dove ce ne sono di più, in più basi e sono più esposte, soprattutto perché in Iraq è presente una milizia paramilitare filo-iraniana Qataib Hezbollah che è l’unica ancora sostanzialmente intatta nella regione dopo i duri colpi subiti da Hezbollah, Hamas e Houthi».
Fare la guerra è un male necessario?
«Ci sono paesi che sono obbligati a combattere per sopravvivere come nel caso dello Stato di Israele, ci sono paesi che scelgono la guerra per perseguire l’egemonia nella regione come l’Iran, questo conflitto contrappone idee diverse di fare la guerra».
È davvero la terza guerra mondiale?
«No, siamo però in una fase di grande instabilità che potrà durare molti anni dovuta al fatto che le maggiori potenze, gli Stati Uniti, la Russia e la Cina, vogliono tutte modificare l’ordine di sicurezza internazionale ma in maniere diverse e in competizione fra loro: questo è il motivo dell’attuale fase di incertezza».
E l’Italia che cosa dovrebbe fare?
«È importante, in questo quadro di incertezza globale, che l’Europa sappia agire con una voce unica, forte da un punto di vista politico e credibile da un punto di vista militare, dunque è fondamentale che l’Italia sia protagonista di un’accelerazione della costruzione europea, a cominciare dalla realizzazione di una difesa comune per consentire all’Europa di proteggersi dai pericoli che vengono da Putin, sui confini orientali, dall’incertezza proiettata dagli Stati Uniti nella stagione dell’amministrazione Trump e dai conflitti in Medio Oriente e in Africa».
Secondo lei, ci siamo abituati alla guerra?
«Non ci si abitua mai alla guerra, è vero tuttavia che siamo entrati in una fase di instabilità dove potenze globali, locali e regionali adoperano l’arma dei conflitti per perseguire i propri interessi nazionali, ovvero stiamo tornando alla stagione di guerre fra grandi e piccole potenze che ha segnato la storia dell’umanità dall’antichità alla fine della Seconda guerra mondiale».