Bergoglio, il Papa degli ultimi

L’editoriale del nostro direttore dopo la morte di Francesco: “Pare già evidente che questo Papa ha lasciato una traccia profonda in tutti noi”
PESCARA. Se n’è andato il Papa che ha dato corpo, più di chiunque, al Vangelo degli ultimi. Se ne sono andati insieme il primo Papa Gesuita e il primo Francesco della Storia, il primo sudamericano, il Papa più vecchio, il più amato dai credenti, ma anche dai non credenti. E se n’è andato anche il più potentemente empatico, addirittura il più politicamente scorretto, e persino il più spiritoso. Un giorno, quando Fabio Fazio gli aveva chiesto: «Qual è la prima cosa che ha pensato quando è stato nominato Papa?», lui aveva sorriso rispondendo: «Sono pazzi! Ma che si faccia quello che Dio vuole». Ero morto dal ridere. Ed era tutto vero.
Il giorno in cui Bergoglio era stato eletto, nella primavera del 2013, mentre assistevo al suo primo discorso avevo fatto un salto sulla sedia. Nel corso della diretta di Papa Francesco, in alternanza con la sua tradizionale inquadratura a piano americano, si vedeva, grazie a un’altra camera alle spalle del Papa, il contro-campo con la “sua” soggettiva, la splendida panoramica di piazza San Pietro illuminata a festa. Ma da televisivo mi domandavo: dove stava l’operatore, se dietro Francesco c’era solo la stanza del conclave che da due millenni era vietata a qualsiasi non porporato?
Il giorno dopo avevo interrogato don Dario Viganó, che poco dopo il nostro dialogo sarebbe stato nominato Direttore del Centro Televisivo Vaticano, diventando a tutti gli effetti “l’occhio di Bergoglio”. Don Dario, all’inizio stupito, poi quasi felice, mi aveva raccontato: «Ho detto a Francesco che, se avessimo avuto un operatore alle sue spalle, il suo messaggio sarebbe arrivato potentissimo ai fedeli. E subito dopo gli ho spiegato che per poterlo fare, però, bisognava derogare ad una consuetudine millenaria. Mi guardò sorridendo e mi disse con un sorriso: “D’accordo! Facciamolo allora!”».
Quell’intervista a padre Viganó che feci per Inonda, rivista oggi, è un documento incredibile, un piccolo trattato sulla comunicazione moderna. Ma se ricordo questo episodio, è perché il pontificato di Papa Francesco è stato dirompente a partire dal primo fotogramma: la lingua dei media si adattava alla sua rivoluzionaria anomalia comunicativa. E dunque Francesco che abbraccia un bambino nella favela brasiliana, che parla di Francesco Totti ai ragazzi delle periferie romane, che lava i piedi inginocchiato ai carcerati.
Oppure: Papa Francesco che nel pieno della guerra di Ucraina sceglie di farsi accompagnare da due donne nella via crucis pasquale, due ex amiche divise dal conflitto. La prima era una madre ucraina, la seconda era una madre russa. C’era tanta deflagrante potenza in quel sintetico messaggio di pace, che per ben tre giorni, con oscena arroganza, l’ambasciatore di Kiev presso la Santa sede - preso da una ebrezza ingiustificata che ora appare addirittura grottesca - vergó messaggi di fuoco chiedendo al Papa: «Lei deve rinunciare a questo gesto».
Ovviamente oggi, dati i diversi rapporti di forza, persino lui capirebbe che non era un gesto “Da una parte”, ma un messaggio potente, proprio perché sopra le parti. Un messaggio a favore della pace. Le grandi e semplici idee, talvolta, si capiscono dopo. E che dire di quell’invettiva all’inizio della guerra di Gaza: «Hanno sparato alle suore! Alle suore! E hanno ucciso due donne e una cuoca!». Oggi, nel giorno in cui tutti i potenti celebrano il suo nome, la domanda che mi faccio è: chi chiamerà, come faceva lui, il convento di Gaza sotto il tiro dei cecchini?
Stacco. Siamo nel 2015, conducevo Matrix. Mi trovavo al centro di produzione di Mediaset quando mi chiamano dalla portineria: «C’è un motociclista del Vaticano, deve consegnarle un plico personalmente». Pensavo ovviamente ad uno scherzo, mi ritrovai invece tra le mani una busta con un sigillo di ceralacca e il simbolo pontificale. Il Santo padre mi invitava alla prima di Chiamatemi Francesco, il (meraviglioso, oggi posso dirlo) film di Daniele Luchetti sulla storia del giovane Bergoglio. Il primo moto di stupore fu ritrovarmi dentro Città del Vaticano, con una platea divisa in due categorie umane di invitati che non si erano mai ritrovate in uno stesso luogo, nel tempo e nella storia: da un lato il meglio delle elite, della nobiltà papalina e del generone romano: dall’altro il meglio dei barboni e dei mendicanti di Roma.
Fra l’altro il film di Daniele Luchetti era tecnicamente una biografia “non autorizzata”. Conoscevo, fra l’altro il libro del giornalista argentino Horacio Verbitsky, durissimo, che raccontava le scelte difficilissime del giovane gesuita Bergoglio, nel 1979, durante la feroce dittatura militare di Videla. Come era possibile che Papa Francesco volesse mostrare al mondo un film sui giorni più duri? Anche avendo grande stima per Luchetti, immaginai che il libro di Verbitsky fosse stato in qualche misura edulcorato.
E mi sbagliavo: il film raccontava il dramma del giovane Bergoglio senza nessun filtro, sino alla scelta di togliere la protezione ai tre sacerdoti che erano stati i suoi maestri spirituali, e che poi erano diventati teologi della Liberazione. Una volta fatta quella scelta, quei sacerdoti – Orlando Yorio e Francisco Jalics – furono rapiti ed erano diventati dei desaparecidos. Nel film la scena più potente era quella in cui Francisco diceva a Bergoglio, in una baraccopoli in cui un attimo prima stava riparando un camion: «Jorge, io non accetto la tua richiesta di abbandonare il mio popolo. Io sono ancora dalla parte di Cristo, e tu, da che parte stai?». Brivido. Il giovane Bergoglio si umiliò con Videla per chiedere che i religiosi non fossero uccisi, e arrivò ad impartire la comunione al figlio del dittatore: i preti desaparecidos furono fatti ritrovare in mezzo a dei cumuli di spazzatura in una discarica. Segnati dal disprezzo. Torturati ma vivi.
La fine della proiezione fu salutata da applausi e lacrime. E io mi domandai, mentre tornavo a casa, quanto era potente il messaggio di quella cerimonia. Era come dire al mondo: “Io sono Papa nel nome di Francesco, ma arrivo al Soglio solo dopo aver amministrato il potere, da gesuita, dopo aver conosciuto il dolore del compromesso e della compromissione, solo dopo aver ballato con i peggiori fantasmi del Novecento”. Solo uno come Bergoglio poteva rompere ogni schema apologetico, raccontarsi con tutte le sue ferite. Spiegare agli amici (e anche ai nemici) che il suo neo-francescanesimo era una scelta, non una bella maniera o un capriccio del destino.
Solo adesso tutto ci è chiaro. Questa morte mette a posto ogni tassello. Purtroppo accade molto spesso. Non abbiamo dimestichezza con la grandezza, quando valutiamo gli uomini e i leader che sono immersi nel proprio tempo, non siamo bravi con le proporzioni: solo la morte ci restituisce le reali dimensioni di ciò che abbiamo davanti agli occhi, e ci pare fino a quel momento normale, e dunque solo la morte ci spiegherà quanto è profonda l’impronta che questo Papa lascia nella storia.
Solo la morte, ora ci fa capire fino in fondo quanto è stato grande Francesco. Solo l’assenza ci spiega cosa è stata la sua presenza, solo la terribile rapidità del congedo ci fa vedere il contorno del vuoto che lascia nelle nostre vite. Se ne va un gigante della storia, e si congeda da noi nel più antiretorico dei modi. Non se ne va distante, protetto dai cerimoniali del commiato, barricato in una stanza chiusa, ma se ne va presente e visibile fino all’ultimo istante nel suo corpo sofferente. Inchiodato fino all’ultimo alla sua sedia a rotelle, affaticato ma non piegato, intento alla sua missione e non alla propria cura.
Adesso sappiamo quello che tutti intuivano: Papa Francesco non era guarito. Papa Francesco a 88 anni non poteva guarire, poteva guadagnare tempo proteggendosi: ma invece non ha rinunciato, fino all’ultimo, alla sua attività pastorale e alla sua missione diplomatica. Lo avremmo dovuto intuire dal poncho: il Papa con il poncho era la rottura di qualsiasi protocollo, l’abbandono di ogni liturgia. Il Papa metteva l’obbligo di fare davanti a qualsiasi altra cosa, e l’ultima immagine ufficiale è quella del pontefice di profilo, che ascolta, quasi interdetto, il vicepresidente degli Stati Uniti, Jd Vance.
La missione per una pace possibile (soprattutto in Ucraina) quella per cui era stato addirittura irriso, era e restava una delle sue priorità assolute, anche nel tempo della malattia più invalidante. Ma Francesco, glielo avevano spiegato i suoi medici, non avrebbe dovuto incontrare nessuno - se non in condizioni di profilassi assoluta - e non avrebbe mai potuto girare in sedia a rotelle in pubblico, o senza cannule di ossigeno nel naso, o coperto in modo precario da uno striminzito poncho che gli lasciava scoperta la schiena. Ragioneremo nelle prossime ore sugli effetti del suo mandato, sulla portata della sua eredità: dodici anni di pontificato che ci hanno fatto dimenticare il prima.
Ma, per quanto scossi dalla notizia, molto si può dire: a me pare già evidente che questo Papa, ha lasciato una traccia profonda in tutti noi, perché in appena dodici anni ha cambiato faccia al Vaticano, ha ringiovanito la più antica delle istituzioni planetarie, è diventato un protagonista assoluto, non solo religioso, della scena mondiale, perché ha stravolto tutte le mappe e tutti codici noti nel racconto del potere. Si era presentato con quella auto descrizione periferica, un papa preso alla fine del mondo, aveva tenuto la sua prima messa importante su un altare fatto di relitti di barche a Lampedusa. Aveva scelto come residenza la frugale stanzetta di Santa Marta, invece dei lussuosi appartamenti del Vaticano, la vicinanza delle suore di Santa Marta al posto di quella dei Cardinali.
Ha subito attacchi di ogni tipo, persino dentro la Chiesa, mentre predicava il suo Vangelo sobrio e testardo, il Vangelo degli ultimi. Era stato gesuita e si era fatto pontefice francescano, passando – anche simbolicamente – dalla complessità alla semplicità, adesso ripercorreremo il filo della sua bellissima e problematica biografia, avendo chiaro che la Chiesa di Roma ha perso un gigante. Il Papa dei più deboli, di quelli che nessun altro difende, solo ora visibile nella sua grandezza, lascia il mondo orfano. Ed esige – non solo da un conclave, ma da tutti noi – una eredità che consenta al mondo di non disperdere la potenza iconoclasta di una passione vissuta in poncho.
Se questa storia per noi finisce in Abruzzo, dunque, non è perché amiamo il localismo, ma perché proprio all’Aquila si è celebrato un altro passaggio fondamentale (lo raccontiamo nell’inserto) del pontificato di Francesco. Il Papa che apre la Porta Santa, che recupera la lezione di Celestino, che esalta un Papa eremita e lo elegge a precursore, ci spiega che la Perdonanza è il primo Giubileo della storia, ha chiuso in questa terra un enorme anello attraverso secoli e millenni di storia. Il Papato di Francesco che pianta nel terzo millennio la lezione di San Francesco di Assisi, attraversando la Porta Santa di Collemaggio: per restare nelle nostre vite per sempre.
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