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13 febbraio

Oggi, ma nel 1936, nella località Utok Emni di Mahi Lalà, città in futuro chiamata Rama, in Etiopia settentrionale, a ridosso del confine con l'Eritrea italiana, nella notte, nel cantiere stradale di Gondrand, 85 operai, 68 italiani e 17 eritrei al lavoro per l'Italia, dipendenti della Società nazionale trasporti Gondrad, che stavano realizzando la carrabile coloniale tra Asmara e Adua, venivano uccisi da 100 uomini di ras Immirù Hailè Selassie, comandati dal fitauri Chenfè.

Ras Immirù, considerato il miglior condottiero etiope, era il cugino del negus Tafari Maconnen, alias Hailè Selassie, ultimo imperatore d'Etiopia, dal 2 novembre 1930 al 5 maggio 1936 e dal 12 settembre 1941 al 12 settembre 1974. Il cantiere aveva a capo l'ingegnere Cesare Rocca, che era accompagnato dalla moglie Lydia Maffioli, e come sovrintendente l'ingegnere Roberto Colloredo Mels. Alfredo Lusetti e Ernesto Zannoni, delle maestranze tricolori, si salvavano perché fatti prigionieri e successivamente liberati.

Nonostante gli operai disponessero di 15 moschetti modello 91 e avessero tentato di difendersi anche con pale e picconi non c'era stato niente da fare. Il massacro, che verrà scoperto all'alba dall'arrivo del 41° reggimento dell'esercito italiano, di pattugliamento, che si troverà davanti agli occhi una scena da film dell'orrore, era stato accompagnato da violenze, mutilazioni ed evirazioni. La signora Maffioli, il cui corpo era stato ugualmente martoriato, era stata, verosimilmente, fatta fuori, con un colpo di pistola alla testa, dal marito: per evitare che venisse violentata e portata via.

Tra i cadaveri (nella foto, i corpi allineati e coperti all'arrivo dei militari italiani) vi erano anche i segni d'esplosione della polveriera del cantiere, che aveva provocato la fine di 40 guerriglieri etiopi.

La mattanza avveniva nei giorni della famigerata battaglia dell'Amba Aradam, iniziata il 10 e che terminerà il 19 febbraio di quel 1936, con la vittoria italica contro gli etiopi. Lo storico scontro coprirà il diffondersi, in maniera più ampia, della notizia degli operai giustiziati. La reazione del Belpaese sarà feroce, per ordine diretto del comando del 2° corpo d'armata, porterà all'impiccagione di un imprecisato numero di capi locali e di individui ritenuti in qualche modo coinvolti. I corpi verranno lasciati appesi sulla forca, alla mercé degli animali randagi, come monito alla popolazione locale.

Dopo l'episodio di Gondrand, inoltre, le alte gerarchie dell'esercito impartiranno la ferrea disposizione ai propri uomini di riservare l'ultima cartuccia per se stessi durante i combattimenti, nell'eventualità di doversi auto sopprimere per evitare di essere brutalizzati da parte degli etiopi.

Il 9 marzo 1936, Fulvio Suvich, segretario generale del ministero degli Esteri, presenterà alla Società delle nazioni la relazione ufficiale del governo mussoliniano che denuncerà il massacro. Ma non vi sarà riscontro da parte della somma istituzione perché l'Italia provvederà, prima di qualsiasi responso, all'invasione armata dell'Etiopia, il 5 maggio successivo, con l'occupazione di Addis Abeba. Nel documento, allegando anche una serie di fotografie, l'Italia lagnava: l'aggressione selvaggia e sanguinaria contro operai non combattenti; l'accanimento bestiale su feriti e cadaveri, con organi genitali tagliati o strappati, sottoposti allo sventramento, al taglio delle mani e all'asportazione degli occhi; l'impiego di vietati proiettili dum-dum che avevano causato impressionanti squarci e lacerazioni nei corpi delle vittime.