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15 novembre

Oggi, ma nel 1960, a Roma, al Quirinale, dopo lo scandalo per la presunta oscenità dell'opera teatrale L'Arialda - dal nome della protagonista principale, la camiciaia Arialda Repossi, della periferia del capoluogo lombardo - venata di tematiche omosessuali, il regista Luchino Visconti, scortato dagli attori Rina Morelli, Paolo Stoppa e Umberto Orsini, chiedevano di essere ricevuti dal presidente della Repubblica italiana Giovanni Gronchi.

La visita era stata organizzata per protestare contro la censura e contro il divieto di rappresentazione dell'opera. Ma non venivano accolti sul colle capitolino più alto, per non trasformare in questione di Stato un fatto di cronaca, benchè di ampia portata.

L'opera era una tragedia popolare di Giovanni Testori (nella foto), datata 1960, andata in scena, in prima presentazione, a Modena, il 12 novembre precedente. Poi verrà riproposta nell'Urbe, al teatro Eliseo, il 22 dicembre successivo, con il testo sottoposto a settanta tagli causati dalla censura governativa che l'aveva giudicato osceno. Lo spettacolo verrà vietato ai minori di 18 anni e, dopo cinquanta repliche nella Città eterna, approderà a Milano, il 23 febbraio '61, al Teatro nuovo, ma verrà rappresentata una sola volta.

Quel giorno stesso subentrerà, infatti, il blocco ordinato dal procuratore della Repubblica Carmelo Spagnuolo: lo stesso giudice che aveva censurato il film di Visconti Rocco e i suoi fratelli, sempre dello stesso '60, ispirato ai racconti meneghini del Ponte della Ghisolfa dello stesso Testori. Il magistrato farà togliere l'Arialda dal cartellone delle serate ambrosiane perché ritenuta turpe e triviale. Inoltre farà sequestrare il copione e verranno denunciati sia Testori che l'editore Giangiacomo Feltrinelli.

Al termine della vicenda legale, che durerà quattro anni e sarà molto seguita, il 23 aprile 1964, a Roma, ci sarà l'assoluzione per entrambi. Tra le polemiche, in particolare, i cattolici accusavano Testori di essere fissato con l'eros, la stampa conservatrice era insorta e aveva appoggiato la tesi di Spagnuolo che aveva sequestrato lo spettacolo: l'omosessuale era per definizione reputato un perverso, privo della capacità di amare in modo puro.

Per la prima volta nel Belpaese era stato posto al centro della trama il tema della legittimità dell'amore gay, scatenando lo scontro con la mentalità dominante degli anni Sessanta. Ma non solo quello della prostituzione maschile, della vendetta amorosa, del disprezzo per la vita misera e priva di prospettive, erano gli aspetti che avevano scatenato lo scandalo. A cominciare dalla battuta finale, messa in bocca ad Arialda: "E adesso venite giù, o morti. Venite. Perché, se i vivi sono cosi, meglio voi. Meglio la vostra compagnia. Venite tutti. E portateci nelle vostre casse. Là almeno queste quattro ossa avranno finito di soffrire e riposeranno in pace. Venite. Venite".