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18 settembre

18 Settembre 2025

Oggi, ma nel 1962, a Chivasso, in provincia di Torino, in via Cappuccini, nella notte, Giuseppe “Pippo” La Bella, di 17 anni, su istigazione dell’amante Lucia Montalbano, di 21, che era anche la cugina di primo grado, uccideva, con due coltellate al cuore, Ignazio Sedita, di 28, marito di lei. La vittima era consapevole del triangolo amoroso ed era appena uscita dal carcere di Cattolica Eraclea per la rapina commessa ad Empoli nel 1959. Verrà trovato, il 20 settembre, segato in tre pezzi, decapitato col viso reso quasi irriconoscibile mediante rasoio, e col corpo sezionato dagli arti, sistemato in due valigie di cartone chiuse con lo spago, nella roggia in prossimità della frazione di San Lazzaro di Sale nelle Langhe, da abitanti del circondario.

Il bagaglio, pesante e colante di sangue, era stato trasportato col taxi dell’ignaro Felice Avagnina che aveva chiesto 18mila lire per scarrozzare avanti e indietro la bizzarra coppia. Per la stampa e per l’opinione pubblica diverrà il “delitto di Ceva”, in quel di Cuneo (nella foto, particolare, la notizia riportata su “La Stampa”, del 22 settembre di quel 1962, a firma di Giuseppe Faraci). Ignazio, ufficialmente magliaro e venditore ambulante, e Lucia, casalinga, s’erano sposati dopo la fuitina riparatrice, alla maniera sicula, prevista per le unioni non approvate in famiglia, quando lei era ancora minorenne.

A cena, prima di essere ammazzato, Sedita, originario di Agrigento, aveva espresso pubblicamente l’intenzione di far prostituire la moglie, proveniente da Caltabellotta, che tanto già andava a letto col parente somigliante a Marlon Brando e non aveva disdegnato esperienze con altri uomini, piuttosto che proseguire con lavori faticosi come quello del muratore o sbarcare il lunario con espedienti rischiosi e fuorilegge. Lei, che dopo il fatto di sangue sarebbe voluta scappare con un dentista di Ribera col quale intratteneva corrispondenza, continuerà a ritenersi innocente e a scaricare la colpa su La Bella. Il 12 marzo 1973, dopo un tortuoso iter processuale che la porterà sette volte davanti a differenti giudici, quella popolarmente divenuta “La squartatrice di Chivasso” verrà definitivamente assolta.

Sarà considerata rea solo per vilipendio di cadavere. All’esecutore materiale, disoccupato al tempo del compimento dell’omicidio, reo confesso, invece, l’8 marzo 1966, la Corte di cassazione confermerà la pena a 17 anni di cella. La vicenda verrà raccontata anche nel volume di Antonio De Vito, avvocato e cronista di giudiziaria prima per la redazione torinese del quotidiano comunista “l’Unità” dal 1962 al 1969 e poi per il già menzionato giornale piemontese “La Stampa” fino al 1994, intitolato “L’uomo tagliato a pezzi. Delitti e processi dei “favolosi” anni Sessanta”, che sarà pubblicato dalla casa editrice torinese Miraggi, nel 2017.