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8 novembre

8 Novembre 2025

Oggi, ma nel 1913, a Sanremo, in via Umberto I, nel Palazzo Cassini, la contessa Maria Elena Tiepolo Oggioni, di 35 anni, uccideva, con un colpo calibro 7,65 sparato in faccia della pistola Browning d’ordinanza del marito - il capitano del reggimento bersaglieri di stanza nella Città dei fiori Carlo Ferruccio Oggioni, di 40 anni - l’amante Quintilio Polimanti, attendente del consorte, di 22, del quale era incinta. Sostanzialmente la nobildonna voleva bruscamente chiudere la relazione con il fante piumato di leva per timore dello scandalo e la vittima, ignara dello “stato interessante” dell’amata, frapponeva resistenza all’essere scaricato su due piedi e senza neanche troppi convenevoli.

Il 2 giugno 1914 l’iter giudiziario, avviato il 29 aprile, assolverà l’assassina, rea confessa, motivando il gesto quale legittima difesa. Soprattutto della propria onorabilità. Il processo (nella foto, particolare, con l’imputata chiusa nella gabbia) desterà enorme attenzione mediatica nel Belpaese. Per il Corriere della Sera sarà seguito dal giornalista originario di Vasto Ettore Janni. Anche per la delicata posizione della donna: dello stesso lignaggio del pittore veneziano emblema dello stile settecentesco Rococò Giambattista Tiepolo, madre di due figli, Gianna e Guido, affetta da crisi isterico-epilettiche in età adolescenziale con evidenti strascichi anche in età adulta che avevano comportato fragilità psichica ulteriormente provata dai 13 anni trascorsi in Somalia con il congiunto.

Condizione di sofferenza implementata anche dalla serie di pesanti sciagure occorse nel tempo ai suoi cari. Maria Elena si salvava dal carcere per decisione della giuria, presa con 5 voti favorevoli, quattro “no” e una scheda bianca, senza tenere conto di una serie di elementi di rilievo comprovanti la liaison amorosa tra lei e Quintilio come il medaglione con foto e ciocca di suoi capelli custodito con cura dal malcapitato e misteriosamente sparito tra un’udienza e l’altra. Polimanti, oltremodo prossimo al congedo da militare e con fidanzata trepidante per il suo ritorno, era nipote del professor Augusto Murri.

Ovvero il medico, deputato del regno nello schieramento di estrema sinistra, già rettore dell’università di Bologna, entrato nella storia della cronaca nera tricolore per il caso dell’ammazzamento del conte Francesco Bonmartini, avvenuto nella città felsinea il 2 settembre 1902. Fatto di sangue che aveva portato, dopo il seguitissimo procedimento torinese, dal 21 febbraio al 12 agosto 1905, alla condanna dei figli dell’insigne clinico: il ventottenne Tullio Murri, a 30 anni di cella, e Linda Murri, primogenita e coniugata con Bonmartini, a 10 di soggiorno obbligato a Porto San Giorgio.