La fuga di Enea da Troia

CARTA MONDO

L'invenzione dell'Italia

Che cosa diciamo quando nominiamo la parola Italia? E soprattutto che cosa diciamo quando parliamo di identità italiana? In questi mesi di grande e spesso confuso dibattito sullo ius soli abbiamo tentato più volte di dare una risposta a queste domande. Due letture utili sono “Italia, l’invenzione della patria” (Bompiani) di Fabio Finotti, professore di letteratura della Pennsylvania University di Philadelphia e direttore del Center for Italian Studies. Illuminante il sottotitolo del volume: “Siamo italiani o lo diventiamo? E come noi, non possono diventarlo altri?”. Per Finotti “La patria non è un dato di fatto che gli uomini si ritrovano pronto tra le mani, una volta per tutte, destinato a restare immutabile nel corso della storia. La realtà della patria sta proprio nella sua creazione incessante da parte della collettività che in essa si riconosce. Di questa collettività la patria è in un certo senso madre e figlia al tempo stesso”. E’ un po’ il concetto indagato da Eric J. Hobsbawm nel suo “Nazione e nazionalismi, Programma, mito e realtà” (Einaudi) nel quale lo storico inglese dimostra che molte nazioni che spacciato pedigree antichissimi sono costruzioni del XIX secolo, ancora in corso. Con altro tono lo scrive anche Giuseppe Prezzolini in “L’Italia finisce, ecco quel che resta” (in pratica il nostro paese spiegato agli americani), dove il grande conservatore definisce fonte di rovina l’idea che gli italiani discendano dai romani (Prezzolini scriveva subito dopo la caduta del fascismo). Giacché, assicura lo scrittore “gli italiani sono lontani dai romani quanto dai francesi o dagli spagnoli”. E lo ius soli? Comunque la pensiate non c’entra nulla con lo ius sanguinis. E questo è già abbastanza.