Acs, la fabbrica va a Cassino: sciopero a oltranza ad Atessa

Operai incatenati ai cancelli dell'azienda che produce spugne per i furgoni Ducato. I lavoratori: "Decisione incredibile visto che il lavoro in azienda c’è"

ATESSA. Gianni, Ciro, Doriana, Marisa, Umberto. In tanti anni non avevano mai fatto proteste eclatanti. Eppure ieri, nel primo cielo grigio di fine estate, si sono incatenati davanti i cancelli dello stabilimento Acs e hanno sfidato la produzione perché ormai non hanno più nulla da perdere anche se hanno famiglia e anche se hanno più di 40 anni e alcuni sono prossimi alla pensione. La fabbrica, che produce spugne per i furgoni Ducato, ha comunicato già dai primi del mese che a metà ottobre si trasferirà a Cassino. Senza se e senza ma, visto che sono anni ormai che si va avanti con questo tira e molla: l’azienda che vuole andare via e i sindacati che minacciano proteste.

E così è sciopero a oltranza: ci si incatena davanti ai cancelli e si presidia il sito produttivo facendo i turni, giorno e notte. Non si lavora da giorni. Per Gianni, Ciro, Doriana e altri 20 come loro, questa vicenda ha un sapore ancora più amaro perché l’Acs il lavoro ce l’ha. «È vero che la crisi è globale», spiega Ciro Innico, 40 anni, «ma qui il lavoro, dal momento che stiamo nell’indotto Sevel, c’è ancora. La direzione vuole andarsene per interessi personali e per salvare Cassino, da dove proviene la famiglia proprietaria della fabbrica». Ai 23 operai che lavorano qui non è stato nemmeno chiesto se c’era qualcuno disposto a trasferirsi.

Eppure questa gente, ricorda Gianni Di Rico, 45 anni, «ha dato tanto, ha sostenuto la Sevel anche negli anni d’oro in cui si producevano più di mille furgoni al giorno ed è in grado di sostenere ritmi elevati per rispettare le scadenze e gli ordinativi che in questo periodo non mancano». «Non ha senso», aggiunge Ciro, «spostarsi altrove. Noi produciamo le spugne per la Isringhausen che poi le monta nei sedili del Ducato, siamo tutti vicini e dislocati nel raggio di poche centinaia di metri, potremmo portare le spugne con le carriole. E invece si preferisce spendere soldi in più per il trasporto, come mai?».

La fabbrica ha anche un’alta percentuale di donne. Come Doriana Bozzella, 54 anni e Marisa Di Biase, 57: «Siamo ad un passo dalla pensione, come facciamo a trovare un altro lavoro? Nessuno ci vuole più». «Hanno deciso di buttare 23 famiglie sul lastrico senza motivo», aggiunge una loro collega, poco più che 40enne.

Per i sindacati questo è un segnale preoccupante e un precedente molto pericoloso. «Se si delocalizza quando c’è il lavoro, che cosa succederà se la Sevel dovesse cominciare a perdere qualche colpo?», dice Mario Codagnone, segretario provinciale Fiom, «bisogna intervenire a livello istituzionale. Questo territorio ospiterà il Campus e si candida a essere il fulcro del settore automotive, non ci possiamo permettere di chiudere le fabbriche».

Il presidente della Provincia, Enrico Di Giuseppantonio, ha fatto appello all’amministratore delegato Fiat, Sergio Marchionne, per «invogliare le aziende dell’indotto Sevel a restare in Val di Sangro». «Non abbiamo alternative», dice invece Davide Labbrozzi, della segreteria provinciale Fiom, «intendiamo presidiare la fabbrica, che consideriamo nostra, fino a che avremo le forze. Continueremo a fare pressione e presto estenderemo la nostra protesta a tutte le altre aziende della Val di Sangro. Il lavoro deve restare qui, non siamo disposti a farcelo scippare».

Daria De Laurentiis

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