Barista trattata da schiava: titolare del locale in carcere

Affidata ai servizi sociali per scontare vecchie condanne: beneficio revocato
FARA FILIORUM PETRI. «Non pensavo fosse reato, pensavo di aiutarla». Carmela Tedesco, 43 anni, si è difesa così, in diretta televisiva nazionale, poche ore prima che per lei si aprissero le porte del carcere. La titolare dell’«Eden Caffè» di Fara Filiorum Petri è stata arrestata ieri. L’accusa mossa dalla procura distrettuale dell’Aquila è pesantissima, quasi anacronistica: riduzione e mantenimento in schiavitù. Avrebbe trasformato la sua barista, una donna descritta come psicologicamente fragile, in una prigioniera.
Secondo l’inchiesta, la vittima era costretta a turni di lavoro massacranti fino a 18 ore al giorno, sette giorni su sette, senza stipendio. Avrebbe vissuto e dormito su un divano nel retrobottega del locale, un piccolo locale cucina dove era installata una telecamera che, per l’accusa, la spiava «nella sua intimità», con un controllo attivo e da remoto. Per mascherare lo sfruttamento, la titolare l’avrebbe costretta a diventare amministratore unico fittizio di una società, isolandola dal mondo esterno con un telefono cellulare capace solo di ricevere chiamate.
L’imprenditrice, residente a Casalincontrada, era in affidamento in prova ai servizi sociali per scontare due condanne per complessivi un anno e tre mesi di reclusione per i reati di sostituzione di persona e falsa dichiarazione resa ai Monopoli dello Stato. Ma quel beneficio ora è stato revocato. Il tribunale di sorveglianza, letti gli atti della nuova, sconvolgente inchiesta, ha ritenuto che la gravità dei fatti contestati non fosse più compatibile con la misura alternativa.
Ieri pomeriggio, i carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro di Chieti, gli stessi che hanno condotto gli accertamenti, insieme ai militari della stazione di Casacanditella, le hanno notificato il provvedimento, trasferendo la donna nella casa circondariale di Madonna del Freddo.
L’inchiesta, coordinata dal pubblico ministero Roberta D’Avolio, descrive un sistema di soggezione continuativa. Un metodo che, secondo gli inquirenti, faceva leva su due pilastri: la fragilità della vittima, una donna descritta negli atti come versante in «stato di inferiorità psichica», e la sua totale mancanza di alternative esistenziali validamente percorribili.
Su questa doppia vulnerabilità, l'accusa dipinge un quadro di sfruttamento assoluto. Il primo elemento è la fatica fisica. La barista era costretta a ritmi che gli inquirenti definiscono «sfiancanti». Quindici, a volte diciotto ore al giorno. Si iniziava alle sette del mattino, si finiva alle ventidue, «talora sino alle ore 24». Non esisteva riposo settimanale. Un lavoro incessante e, secondo l’accusa, gratuito. Il rapporto era «in nero», ma la contestazione va oltre: l’omesso versamento delle somme di denaro spettanti. I compensi, semplicemente, venivano «trattenuti con l'inganno». Una violazione reiterata di ogni normativa su orario, riposo, ferie e sicurezza, finalizzata non solo a evadere gli obblighi, ma a mantenere la vittima in uno stato di dipendenza totale.
Poi c’era l’alloggio. La donna viveva dove lavorava. L’indagata, sostiene l’accusa, le imponeva «condizioni alloggiative degradanti», costringendola a dormire «quotidianamente su un divano in un piccolo locale cucina adibito a dormitorio». È in questo dormitorio improvvisato che si innesta la contestazione più inquietante: la sorveglianza. In quel «piccolo locale cucina», la Tedesco avrebbe installato una telecamera. Non un dispositivo di sicurezza puntato sulla cassa, ma un occhio elettronico che, secondo la procura, «riprendeva in modo continuativo l’intero ambiente e la stessa» donna «nella sua intimità». Un controllo totale, «attivo e da remoto», che non si fermava alla fine del turno di lavoro ma proseguiva «al di fuori degli ambienti di lavoro». L’isolamento era il quarto pilastro del sistema. Per privare la vittima di relazioni esterne, le era stato fornito un telefono cellulare. Ma era uno strumento monco, «senza ricarica, idoneo alla sola ricezione delle chiamate». Impossibile per lei contattare il mondo esterno, chiedere aiuto, mantenere legami.
Infine, la beffa legale. Per giustificare l’assenza di un contratto da dipendente, la Tedesco avrebbe indotto la donna a costituire una società, la Eden bar-società a responsabilità limitata semplificata. In questa scatola giuridica, la vittima non era una dipendente sfruttata. Sulla carta, rivestiva «fittiziamente la carica di amministratore unico». La schiava che, per il sistema, figurava come titolare.
Questo è il castello accusatorio. Ma nell’intervista rilasciata a La Vita in diretta su Rai Uno, Carmela Tedesco ha provato a smontare ogni punto. «Non pensavo che ospitare una persona lì fosse un reato, non avrei preso così alla leggera le cose. Pensavo di aiutarla», ha dichiarato. L’alloggio sul divano? Una libera scelta, dettata dalla necessità. «Ha iniziato a dormire lì da un annetto. È stata una sua decisione. Però il permesso, ovviamente, gliel’ho dato io perché non sapevo più dove collocarla». Ha poi descritto un rapporto quasi materno: «Io prendevo i suoi vestiti sporchi, li lavavo, venivo a prendere da mangiare. La spesa che vedi là la devo portare a lei. Stava lì perché questa ragazza non ha nessuno».
E gli orari disumani? «Farla lavorare 18 ore? Ma se una persona mi viene, pure quando era dipendente. Doveva attaccare alle 15.30 perché avevo altre persone e alle 9 stava già lì. Io non la caccio». La telecamera? «Non era per lei, era per i furti alle slot machine, era all’ingresso della cucina. Secondo lei, dobbiamo spiare una ragazza che dorme?». L’isolamento? Una «bugia grossa». «Poteva uscire e andare dove voleva. Sono tre mesi che è fidanzata». E il telefono: «La possibilità di chiamare ce l’ha. Magari i carabinieri l’hanno beccata nel giorno in cui era rimasta senza credito al telefono». Persino la società fittizia e la paga, per la Tedesco, trovano una giustificazione: «Tutti pensano che io le abbia fatto questo contratto di amministratrice per evadere gli obblighi contrattuali. Assolutamente no, non sapevo che la dovevo anche assumere. Mea culpa». E i soldi: «La pagavo. Quando era assunta, prima di diventare amministratrice, prendeva tra i 900 e i 1.000 euro. I pagamenti glieli ho dati in modo tracciabile? Alcune volte sì, altre no, perché magari me li chiedeva giornalmente. Non mi sono resa conta che fosse un reato». In questa storia di versioni diametralmente opposte, l’elemento più tragico e complesso resta la vittima. La donna, descritta come persona con «forti difficoltà psicologiche», nega di essere tale. Nega lo sfruttamento, nega la prigionia. Sostiene, come la sua titolare, di essere stata «solo aiutata dalla Tedesco». Una dinamica che, per gli inquirenti, potrebbe essere la prova definitiva di quella soggezione psicologica che è il cuore del reato contestato. L’indagine prosegue ora con l’analisi del materiale informatico sequestrato. Tre cellulari sono al vaglio dell’ingegnere Davide Ortolano, consulente della procura, alla ricerca delle prove digitali della sorveglianza remota, degli inganni economici e dei messaggi che hanno scandito la quotidianità di quella che, per l’accusa, non era vita. Era schiavitù.

