Palmoli

Bimbi nel bosco, ecco la relazione che ha segnato il loro destino

24 Novembre 2025

Quattro pagine fitte, che non raccontano una favola di libertà, ma descrivono una discesa agli inferi fatta di isolamento. L’assistente sociale al tribunale: «Restiamo in attesa di provvedimenti»

PALMOLI. Un documento, più di ogni altro, ha segnato il destino dei tre bambini di Palmoli, trasformando la loro vita nella casa del bosco in un fascicolo da «codice rosso» per la giustizia minorile. È la relazione finale dei servizi sociali, datata 14 ottobre 2025. Quattro pagine fitte, firmate dall’«assistente sociale specialista» incaricata del caso, che non raccontano una favola di libertà, ma descrivono una discesa agli inferi fatta di isolamento.

È su queste carte che il tribunale per i minorenni dell’Aquila ha fondato l’ordinanza di allontanamento eseguita giovedì scorso. Ed è leggendo queste righe che si comprende la profondità del baratro che si era aperto tra la famiglia anglo-australiana e lo Stato italiano. Non c’è spazio per le sfumature: nero su bianco, viene certificata l’impossibilità di proteggere i minori restando fuori dalla porta di casa.

La relazione si apre con la cronaca di un fallimento: quello del dialogo. Dopo l’udienza di maggio, i contatti sembravano ripresi, ma è stata un’illusione breve. Presto, Nathan Trevallion e Catherine Birmingham – sostiene l’assistente sociale – hanno eretto un muro. «I signori Trevallion-Birmingham, contattati più volte, hanno manifestato la chiara volontà di non recarsi a colloquio con la scrivente e l’impossibilità di concordare una visita a domicilio», scrive l’operatrice. Ma dietro questo muro, spiegano i genitori, c’era la paura. Sentivano l’accerchiamento, il giudizio preventivo di un sistema che non comprendeva la loro scelta di vita. «Siamo stati vittime di bullismo, molestie e minacce dal Comune», hanno scritto nella loro memoria difensiva, raccontando di sentirsi sotto attacco solo per aver deciso di vivere diversamente. Una diffidenza reciproca che ha avvelenato i pozzi del dialogo fin dal principio.

La situazione precipita al punto da richiedere la forza. Per vedere come stanno i bambini, i servizi sociali sono costretti a presentarsi alla porta del casolare con i carabinieri e il curatore speciale. È una «visita domiciliare a sorpresa», l’unico modo per infrangere il silenzio. La reazione della coppia, descritta nel rapporto, è quella di chi si sente sotto assedio. Appena notano le auto sulla strada, rientrano nello stabile. E quando gli operatori cercano un contatto, lo scontro è immediato.

«In modo particolare la signora Birmingham ha assunto da subito un atteggiamento difensivo e a tratti oppositivo, rendendo difficoltoso il dialogo e impedendoci di avvicinarci alla loro dimora», annota l’assistente sociale. Il risultato è che i bambini restano fantasmi, intravisti da lontano come figure inafferrabili: «Non è stato dunque possibile parlare con i minori ma solo vederli a qualche metro di distanza».

Nonostante le tensioni, i servizi riferiscono di essere riusciti a strappare una tregua, a far sedere la coppia a un tavolo per sottoscrivere un «progetto sociopsicoeducativo». È in questo frangente che vengono messe nero su bianco le condizioni reali della famiglia. La fotografia scattata dalla relazione, dunque, smentisce la narrazione dell’autarchia felice propugnata dai genitori. Si parla di «situazione abitativa» critica: «Il nucleo familiare vive una condizione di disagio abitativo in quanto non è stata dichiarata l’abitabilità dello stabile presso il quale dimora abitualmente».

Ma è la «situazione igienico-sanitaria» a preoccupare di più: nel 2025, in quella casa, «non sono presenti i servizi igienici e le utenze relative a luce, acqua e gas». Niente bagni, niente rubinetti, niente interruttori.

Per la famiglia, invece, quella presunta precarietà era una scelta etica. Usano pannelli solari, riscaldano l’acqua con la stufa a legna, hanno costruito un bagno a secco ecologico. «I bambini non sono sporchi, fanno il bagno tutti i giorni», ha ribadito la madre Catherine dopo ’'allontanamento, descrivendo una casa calda e sicura, lontana anni luce dal «rudere» visto dalle istituzioni. Una visione inconciliabile: dove lo Stato vede rischio, loro vedevano libertà.

Anche l’economia della famiglia appare appesa a un filo. La relazione certifica che «la coppia genitoriale non ha entrate economiche fisse».

Ma il cuore del problema, per i servizi sociali, non è la povertà materiale, è quella relazionale. L’isolamento dei bambini viene descritto come una scelta deliberata e ideologica dei genitori. «La coppia applica i principi dell’un schooling», si legge nel rapporto, e la motivazione addotta per non mandare i figli a scuola gela gli operatori: «I figli non possono frequentare liberamente altri bambini perché influenzabili».

La diagnosi sociale è netta: i minori hanno «un rapporto esclusivo con i genitori, non hanno rapporti con altri componenti, con i coetanei, con la scuola e altre agenzie educative convenzionali». Un microcosmo chiuso, impermeabile, dove tutto ciò che è esterno è visto come una minaccia. Per questo, i servizi ritengono urgente «verificare lo sviluppo psicofisico, problemi comportamentali e disturbi nell’area relazionale/affettiva/emotiva». Eppure, i genitori respingono con forza l’accusa di segregazione. «Non siamo isolati», ha spiegato Nathan. «Usciamo ogni settimana, andiamo al parco, conosciamo il mondo». La loro è una selezione, non una reclusione: scelgono di frequentare persone che condividono i loro valori, per proteggere i figli da una società che giudicano «tossica» e piena di insidie, dai social media alla violenza.

Il tentativo di costruire un ponte fallisce miseramente. Il progetto prevedeva che la famiglia frequentasse un centro socio-psico-educativo comunale, per incontrare una psicologa e iniziare, gradualmente, a far socializzare i bambini attraverso attività ludiche. Ma, quando la dottoressa contatta la famiglia per il primo incontro, la risposta – a dire dei servizi sociali – è una porta sbattuta in faccia: «I coniugi Trevallion hanno risposto di non essere più interessati».

Il punto di non ritorno, però, si raggiunge sulla salute. La pediatra che ha visitato i bambini ha prescritto accertamenti: una visita neuropsichiatrica infantile per una valutazione globale e degli esami del sangue per valutare lo stato immunitario, visto che i piccoli non sono vaccinati. La risposta dei genitori, messa per iscritto, suona come una provocazione inaccettabile per le istituzioni, una sfida aperta all’autorità sanitaria. «È necessario precisare», scrive l’assistente sociale con evidente sconcerto, «che i coniugi Trevallion hanno espresso a voce e per iscritto la loro volontà di sottoporre i figli a visita neuropsichiatrica e prelievi ematochimici “al costo condizionale di 50.000 euro per ogni minore”».

Una richiesta di denaro – 150 mila euro in totale – per permettere allo Stato di verificare se i loro figli sono sani. Un baratto impossibile che ha sancito la rottura definitiva. Anche su questo punto, la versione della difesa è diversa: non avidità, ma provocazione. Una “boutade” lanciata da genitori esasperati che si sentivano trattati come se i figli fossero merce da esaminare. «Non volevano quei soldi», assicura l’avvocato Giovanni Angelucci, ridimensionando il gesto a un atto di ribellione contro un’intrusione percepita come violenta.

Di fronte a questo muro, la relazione si chiude così: «Questo servizio sociale resta in attesa di ulteriori provvedimenti», conclude la specialista, sottolineando che «la complessità del caso necessita di ulteriori approfondimenti» e richiedendo il supporto dell’autorità giudiziaria.

Quei provvedimenti sono arrivati. Il tribunale ha letto queste carte e ha deciso che non c’era più tempo per approfondire, bisognava agire. La storia dei bambini del bosco, letta attraverso la lente burocratica ma precisa dei servizi sociali, non è un romanzo d’avventura. Eppure, dietro quel linguaggio tecnico e quelle accuse, resta la voce di una famiglia che, pur con metodi non convenzionali, gridava il suo amore e la sua paura di essere spezzata. Una paura che, alla fine, è diventata realtà in un pomeriggio di pioggia e di rabbia.

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