Chieti, crac causato da crisi e banche: il giudice assolve l'imprenditore

23 Novembre 2014

I giudici d’appello capiscono il dramma di un imprenditore teatino e lo scagionano. In primo grado ebbe 3 anni e mezzo

CHIETI. «O rientri subito oppure...». Le banche gli dissero così. E lui, per far fronte ai debiti, fu costretto a vendere i beni mobili e la licenza della sua azienda, che però stava per fallire, mettendosi nei guai con la giustizia. Venne accusato di bancarotta per distrazione. E in primo grado, il crac gli era costato la condanna a 3 anni e mezzo di reclusione e l’interdizione per cinque anni dai pubblici.

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Ma Fernando Di Lorenzo, imprenditore molto noto a Chieti, non ha gettato la spugna di fronte al mondo che gli crollava addosso. E’ ricorso in appello portando in aula un elemento nuovo e sostanziale di prova: una denuncia circostanziata contro le banche che di fatto lo avevano obbligato a una scelta senza ritorno. E’ come trovarsi di fronte a un baratro mentre qualcuno, che ti sta alle spalle, ti obbliga a lanciarti nel vuoto. Si chiama causa di forza maggiore il motivo che, in sintesi, ha permesso all’imprenditore di essere riabilitato in appello con una sentenza che è destinata a diventare un caso abruzzese. Per i giudici di secondo grado “il fatto non costituisce reato”, la vera colpa di quel crac non è dell’imprenditore ma è da imputare alla crisi economica e, soprattutto, alle banche che lo incalzavano senza lasciargli un giorno in più di tregua fino a farlo fallire.

La storia del titolare dell’azienda Nice srl, che vendeva materiale elettrico, diventa un simbolo del riscatto nei confronti degli istituti di credito e magari ridà speranza a centinaia di altri casi identici di imprenditori, capaci ed esperti ma costretti a fare salti mortali per evitare il crac per colpa di chi, le banche, non concedono sconti e deroghe, Né fanno distinzione, come nel caso di Di Lorenzo.

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Era il 20 novembre del 2012 quando il tribunale di Chieti gli infliggeva tre anni e sei mesi di carcere. Per i giudici Geremia Spiniello, Patrizia Medica e Isabella Maria Aglieri, l’imprenditore era colpevole di aver ceduto a terzi, cioè alla Idroclima, il ramo d’azienda della sua società fallita insieme a beni mobili, come tavolo da lavoro, pc, cassettiere ecc.

A sua volta, l’Idroclima vendeva quella licenza alla Alitec, per una contropartita di 112.500 euro. E secondo l’accusa sarebbe stata una vendita simulata. Questa tesi era stata accolta dal tribunale di Chieti con la sentenza di condanna per l’imprenditore. Che cosa è cambiato da allora ad oggi, cioè al 20 novembre scorso, quando altri giudici, questa volta d’appello, hanno ribaltato la prima sentenza di condanna e scagionato l’imputato? Non si può parlare di buon senso o di volto più umano della giustizia. Chi fa le sentenze applica le leggi. Ma il collegio aquilano, presieduto da Fabrizia Francabandera, ha tenuto conto della tesi del difensore, Graziano Benedetto, che si riassumono così: Di Lorenzo ha svenduto l’azienda perché le banche, che lui ha denunciato, l’avevano costretto a rientrare immediatamente, dandogli 15 giorni di tempo. Senza fargli nessuno sconto.