Condannato a 18 anni per abusi sui nipoti: per anni violentò anche la figlia

I giudici: «Si è ripetuto un inquietante disegno manipolatorio, le parole dell’imputato non credibili», ecco le prove che lo inchiodano. I racconti delle vittime ritenuti invece «spontanei e genuini»
CHIETI. Negli anni Novanta era toccato alla figlia. Una violenza sessuale per cui il padre aveva scontato quattro anni. Ora è toccato alle due nipoti e al nipote di quell’uomo, bambini tra i 12 e i 13 anni. Sono state depositate le motivazioni della condanna a 18 anni per il 61enne di Chieti, e svelano un copione identico: una «inquietante medesimezza del disegno manipolatorio». A saldare il quadro è stata la testimonianza in aula della prima vittima, la figlia, diventata nel frattempo zia.
La ricostruzione dei fatti poggia sui racconti dei tre minori, assistiti dagli avvocati Danila Solinas, Marco Femminella e Gabriele Torello. Sono stati ascoltati in modalità protetta, lontano dall’aula. I giudici (Guido Campli, presidente, Morena Susi ed Enrico Colagreco) hanno ritenuto le loro deposizioni «pienamente attendibili», sottolineandone la «genuinità e spontaneità». Le narrazioni sono state definite «assolutamente coerenti e sovrapponibili», «prive di enfasi, di intenti calunniosi o vendicativi» e «dotate di intrinseca logica e coerenza interna». Hanno fornito dettagli precisi, nonostante la giovane età. Hanno descritto la vergogna, la paura, il senso di colpa, reazioni emotive giudicate «coerenti con quelle comunemente manifestate dalle vittime di simili reati». A rendere non credibile l’ipotesi di un complotto ha contribuito un altro elemento: il «forte legame affettivo» che i minori avevano con il nonno prima che tutto venisse alla luce.
La linea difensiva del 61enne è stata smontata pezzo per pezzo, definita «palesemente inattendibile». L’uomo aveva tentato di giustificare le accuse come una pura ritorsione. Una vendetta. Sosteneva che tutto fosse nato da un litigio avuto con il padre di due delle vittime. Il motivo? Averlo rimproverato perché permetteva alle ragazzine di fumare. Questa versione è stata bollata come «del tutto scevra di credibilità» e il movente definito «pretestuoso». Sono state le stesse minori, al contrario, a riferire che fosse proprio il nonno, in altre occasioni, a incoraggiarle o permettere loro di fumare. I giudici non hanno ravvisato alcun movente concreto che potesse spingere i genitori, o i ragazzi stessi, a «preordinare un tale disegno calunnatorio».
Al quadro accusatorio si aggiungono poi i riscontri oggettivi. L’analisi dei tabulati telefonici ha incrociato spostamenti e orari. Ma, soprattutto, ci sono i sopralluoghi dei carabinieri della stazione di Chieti principale, comandati dal luogotenente Michelangelo Donvinto. Hanno confermato la ricostruzione della nipote tredicenne riguardo a uno degli episodi più gravi, avvenuto la sera del 10 gennaio 2024. La ragazzina aveva descritto l’abuso subito in un’auto, in una zona rurale isolata. Aveva fornito un dettaglio preciso, quasi fotografico: una croce luminosa, visibile in lontananza. Elementi che il consulente della difesa aveva tentato di bollare come frutto della fantasia delle minori. I militari hanno raggiunto quel punto. Hanno verificato. Il «particolare della croce luminosa» era esatto, un riscontro oggettivo puntuale che confermava la presenza della ragazzina sul luogo.
La deposizione della figlia dell’uomo, zia delle giovani vittime, è stata definita «particolarmente significativa». La donna ha spiegato di aver interrotto «qualunque frequentazione» con il padre proprio a causa del «passato di abusi sessuali» al quale l’aveva sottoposta durante la sua infanzia, dal 1997 al 1998. Un incubo che all’epoca portò alla prima condanna e che la costrinse a vivere in un istituto per minori «da quando aveva undici anni sino alla maggiore età». Una volta uscita, non sapendo dove altro andare, aveva vissuto per alcuni anni a casa del padre. Proprio durante il suo esame in aula, le è stata mostrata una lettera manoscritta indirizzata all’uomo. La testimone ha riconosciuto la lettera, ma ha spiegato di essere stata «costretta a scriverla» dal padre stesso, che l’aveva «minacciata di togliersi la vita» se non avesse obbedito. Emerge così «l’inquietante medesimezza del disegno manipolatorio». La «medesimezza delle strategie» utilizzate a distanza di decenni per soggiogare le vittime. Il 61enne è stato quindi ritenuto responsabile per tutti i reati.
La violenza è stata configurata sia mediante «costrizione, fisica e psicologica», arrivando in un episodio a minacciare una delle nipoti con un coltellino, sia «approfittando dello stato di sonno e, quindi, di minorata difesa e di minorata coscienza» delle vittime. La condanna finale tiene conto di tutte le aggravanti: il legame di parentela, l’età inferiore ai quattordici anni di alcune vittime all’epoca dei fatti, la continuazione. E, soprattutto, la «recidiva specifica e reiterata». La stessa identica leva psicologica usata anni prima con la figlia si è ripetuta con le nipoti: la minaccia di suicidarsi se avessero parlato.

