Fegatelli (Fiom): «Senza investimenti su Atessa sarà il fine vita per Stellantis»

Linee produttive vecchie, l’esempio dei ganci che non reggono il peso del furgone elettrico: «Nuovo modello? Non se ne parla»
ATESSA. Alfredo Fegatelli, 62 anni, segretario regionale della Fiom, si occupa della ex Sevel dal 2019, anno di inizio del suo mandato a capo del sindacato metalmeccanico della Cgil. Il suo è un approccio da addetto ai lavori, prima ancora che da sindacalista. Ha lavorato per una software house della Olivetti, poi per Telettra, del gruppo Fiat, grazie alla quale ha girato vari stabilimenti Fiat per installare diverse applicazioni software. Conosce da dentro Mirafiori, lo stabilimento Lancia di Chivasso, Marelli di Sulmona, la ex Sevel, Cassino. Ecco perché, secondo lui, per conoscere il futuro di un plant non ci vogliono grandi strategie. Basta guardare le macchine. E le macchine di Stellantis Atessa, per il segretario Fiom, parlano chiaro: non possono reggere la produzione di nuovi furgoni elettrici per diversi motivi: lunghezza delle linee, ganci che non supportano il peso dei motori elettrici, molto più elevato di quelli endotermici, “tapparelle” non revisionate per un nuovo modello.
Fegatelli, andiamo subito al sodo: che ne sarà dello stabilimento Stellantis di Atessa?
«A domanda secca rispondo con una risposta altrettanto secca. Se non ci saranno investimenti seri nel giro di pochi mesi, significa che stiamo gestendo il fine vita di questo prodotto di successo che è il furgone commerciale leggero e, di conseguenza, anche il fine vita dello stabilimento abruzzese».
Ci sta dicendo che siamo di fronte a una annunciata catastrofe?
«No, non necessariamente. Il fine vita di un prodotto può durare anche 10 anni. E difatti stiamo vedendo che Stellantis sta guardando oltre l’Europa, in Paesi emergenti come l’Uruguay, come l’Africa, Paesi dove non è richiesta la tecnologia elettrica e dove il furgone, per come lo conosciamo noi, può avere una forte espansione».
E Stellantis Atessa? Sta raschiando il fondo del barile?
«La mia perplessità deriva da due fattori: il primo è che quanto viene lanciato un nuovo modello, questo modello viene progettato almeno 5 anni prima. In questo caso non ci risulta che nel 2022-2023 si sia mai parlato di questo. Il secondo fattore riguarda gli investimenti. Un nuovo modello comporterebbe un investimento da parte della casa madre di almeno due miliardi di euro sul plant di Atessa e, al momento, non si sono visti».
Lei ha sempre detto che la ex Sevel è uno stabilimento obsoleto. Come mai?
«Ha oltre 40 anni. I suoi macchinari hanno circa 20 anni, un’era geologica dal punto di vista industriale».
Motivo?
«Questo perché gli impianti fatti all’epoca erano impianti dedicati, ovvero tarati per un certo tipo di prodotto che è ancora quello che produciamo ad Atessa, ma con alcune varianti. I nuovi stabilimenti, come Melfi e Gliwice in Polonia hanno invece impianti modulari, possono essere ampliati come si vuole, sono fatti a segmenti. Nella ex Sevel l’area di accoppiamento motori-scocca risale al 2004, un’eternità. E lo stabilimento manca di investimenti da anni, di ammodernamento di macchine e di tecnologia».
Ci faccia un esempio.
«La linea di montaggio si sviluppa su due livelli, uno basso e uno sopraelevato, quello che io chiamo tapparella, che poggia su dei montanti che negli anni sono stati sempre più rinforzati rispetto al peso dei furgoni. Ma il furgone elettrico non passa per le linee sopraelevate perché è molto più pesante e deve essere assemblato manualmente. I ganci attuali non potrebbero sostenere un furgone più lungo di quello attuale (cosa che presupporrebbe un nuovo modello con un pianale completamente diverso), ma nemmeno il peso di un furgone elettrico non cabinato. Inoltre se l’area di accoppiamento tra motore e telaio è il cuore dell’attuale settore montaggio, e prima dava la possibilità di arrivare ad accoppiare 1.250 furgoni al giorno e oggi, nelle più rosee aspettative, si arriverebbe al massimo a mille, significa che più si va avanti e più diventa difficile adattare lo stabilimento alle nuove esigenze produttive».
Come giudica l’annunciato aumento produttivo a 820 furgoni al giorno a febbraio rispetto agli attuali 620 di oggi?
«A mia domanda sul motivo di questo innalzamento produttivo non ho avuto risposta. Quindi non sappiamo se c’è una reale domanda o se l’azienda voglia fare magazzino in vista di periodi di manutenzione o di eventuali problemi di Gliwice. Però faccio i conti della serva».
Prego.
«Quest’anno saranno circa 166mila i furgoni prodotti. Con 225 giorni lavorativi, se tutto va bene, a 820 furgoni al giorno significa che arriveremo a 184mila furgoni prodotti nel 2026. Ma siamo sempre sotto i 200mila, ammesso che la produzione sia costante. Quindi mi vengono dei dubbi: c’è reale richiesta di mercato? C’è un aspetto che viene sottovalutato tantissimo, ovvero la differenza tra produzione e immatricolazione. Quanti furgoni vengono effettivamente immatricolati in Europa? Pur rimanendo leader, Stellantis ha perso almeno il 4% delle immatricolazioni che invece ha conquistato qualcun altro, in questo caso Ford e Renault che hanno un furgone più moderno a un costo più basso».
Qual è oggi il vero pericolo per lo stabilimento di Atessa?
«Sinceramente penso consista in Gliwice, lo stabilimento polacco. Ha capacità produttiva di 100mila furgoni e allo stesso tempo una linea moderna e tanto spazio per allungarla. La lastratura è molto robotizzata, con robot moderni, non come i nostri che provengono da altri stabilimenti. Il nostro montaggio però, anche con robot vecchi, è ancora molto performante, ma allo stesso tempo la nostra verniciatura, nonostante sia nuova, ha un limite: non può lavorare più di 950 furgoni al giorno e al montaggio ci si ferma a 350 veicoli a turno. Ad Atessa stanno continuando a lavorare sulla riduzione dei costi ed è un problema serio: ci sarà ulteriore ridimensionamento del personale. Accorpano le postazioni, le accorciano facendo fare ai lavoratori più attività, diminuisce così l’occupazione e il lavoratore deve fare più mansioni. Stanno sfruttando più l’essere umano che la tecnologia, mentre dovrebbe essere il contrario: l’uomo si spezza, il motore no. Quando sono stati fatti 297mila furgoni negli anni d’oro nella ex Sevel lavoravano 6.500 persone, ovvero una media di 45 furgoni a persona. Con il piano annunciato di 820 furgoni al giorno se si producono 185mila furgoni con 4.300 persone, stiamo sempre a 43 furgoni a persona, ovvero stesse percentuali con meno persone».
Qual è invece la forza del plant abruzzese?
«Il Ducato per me è uno dei migliori furgoni al mondo. Per le prestazioni del motore a diesel, di cui sono un fan sfegatato, ma soprattutto perché è adattabile a tutte le esigenze. Il genio è stato quello di aver concentrato tutta la meccanica all’interno della cabina, così che la parte posteriore uno se la allestisce come vuole. Quindi questa grande opera di ingegneristica andrebbe solo perfezionata. Il futuro dei veicoli commerciali leggeri per me deve prevedere una tecnologia elettrica, ma legata all’idrogeno in modo da soddisfare le esigenze sia dei grandi carichi, della versatilità nelle zone a zero emissioni, ma anche delle lunghe percorrenze senza le attese per la ricarica. Il futuro è solo se si riprogetta completamente il pianale che deve già contenere tutta la parte elettrica, come avviene nei furgoni concorrenti. Oggi invece il furgone elettrico prodotto da Stellantis è un accrocchio: prende la tecnologia elettrica e cerca di adattarla a un furgone che non è progettato per essere elettrico».
Ha più volte sostenuto che Stellantis sia pronta a un disimpegno. Conferma?
«Siamo davanti a una scelta di campo ormai inequivocabile. Stellantis non sembra più convinta di investire in Italia: i fatti dicono che il gruppo sta privilegiando Nord America, Nord Africa, Polonia e Francia. Nonostante si parli di una ristrutturazione globale, è evidente che la presenza dello Stato francese nel capitale del gruppo renda molto più complesso agire in Francia rispetto a quanto avviene nel nostro Paese, dove l’assenza di un contrappeso pubblico ci rende l’anello debole della catena. Le recenti dichiarazioni del ceo Filosa sulle modifiche ai target Ue 2035 confermano le mie peggiori perplessità. Ho la convinzione che, anche se l’Italia decidesse di regalare l’energia elettrica a Stellantis, l’azienda troverebbe comunque nuovi alibi per non garantire gli investimenti. Se Stellantis vuole davvero dimostrare di credere ancora in questo stabilimento, deve ammodernare la ex Sevel con tecnologie di ultima generazione e garantire volumi degni di questo nome. Il tempo delle scuse è finito».
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