I Mille papaveri rossi e la battaglia per la libertà

Settant’anni fa, nel castello, prendeva le mosse il primo gruppo di volontari Un manipolo di giovani i cui territori erano stati devastati dalle truppe tedesche

CASOLI. Mille papaveri rossi. Sono i “volontari della libertà” che il 5 dicembre 1943, e nei giorni seguenti, cominciarono ad affluire a Casoli, nel castello ducale, per segnare i loro nomi su un registro tenuto da un ufficiale inglese per essere accettati nella “Banda patrioti della Majella”. In verità si trattava di poche decine di giovani, provenienti in gran parte da Torricella Peligna, al seguito dell’avvocato socialista Ettore Troilo, e da altri comuni della zona devastati dai militari tedeschi che tra fine novembre e i primi di dicembre fecero terra bruciata di gran parte dei paesi dell'Aventino, esclusa Casoli.

Fra di loro c’erano anche i primi patrioti combattenti delle “bande” di Palombaro e Civitella che si erano già scontrati con i tedeschi mesi prima. Il numero crebbe nei mesi successivi fino ad arrivare a poco più di mille e cinquecento, includendo altri giovani che si univano alla Brigata Majella (così chiamata dagli inglesi) man mano che essa risaliva la penisola inquadrata nell’Ottava armata britannica. Ma di quei “Mille papaveri rossi” sopravvivono oggi una ventina, e forse meno, alcuni dei quali si ritrovano ogni prima domenica di agosto al Sacrario di Taranta Peligna, su un costone della loro montagna da cui guardano la vallata dell’Aventino e i paesi da cui fuggirono in quel terribile inverno di settant’anni fa, distrutti dai tedeschi, liberati dagli inglesi, e infine ricostruiti alla meno peggio nel lungo dopoguerra che per tanti anni ha ignorato, e un po’ disprezzato, quel pugno di ragazzotti che i benpensanti dell’epoca ribattezzavano con appellativi ingiuriosi.

Eppure sono stati gli unici a combattere, in quella zona, corpo a corpo con gli invasori, a ribellarsi alle razzie, a difendere le loro donne, a non voler uccidere i compaesani fascisti e collaborazionisti, alcuni dei quali li ingannarono con delazioni micidiali dalle cui trappole mortali non riuscirono a scampare. Che ne è stato di quel fantomatico tenente Tieri che a Chieti consegnò ai tedeschi, con l’inganno, dieci giovani aspiranti resistenti (ex-ufficiali del regio esercito, un medico, un insegnante, un industriale) torturati e fucilati giorni dopo a Bussi? È mai tornato a Pizzoferrato “Alberto il tedesco”, come lo ribattezzarono i compaesani, che amava farsi vedere in divisa teutonica dandosi delle arie di superiorità verso quei poveracci che difendevano il pane quotidiano dalle ruberie e dalle violenze degli occupanti? E il conte Genoino di Lanciano, gran trimalcione dell’anteguerra, che dopo la battaglia del Sangro abbandonò la sua dimora di Castel di Septe a Mozzagrogna, ormai distrutta, vestito da nazista in mezzo ai nazisti, dirigendosi a nord, dove - si dice - trovò una brutta fine ad opera dei partigiani?

Sono storie nella storia, di cui si sono occupati solo alcuni ricercatori locali, ossessionati dalle tragedie dei loro piccoli paesi. Oggi si sa che i primi gruppi di patrioti si formarono a Chieti già nel settembre del ’43, si stabilirono a Palombaro ed ebbero uno primo scontro con i nemici il 3 ottobre, a Capo Le Macchie, riportando una piccola effimera vittoria. La Majella protesse in parte la loro fuga, e verso la Majella si diressero i volontari organizzatisi a Casoli con le armi degli inglesi per avere il battesimo del fuoco vicino Civitella, dove morì il primo dei patrioti, Mariano Salvati, un contadino quarantenne di Colledimacine. A marzo fu ucciso Donato Ricchiuti, di Lama dei Peligni, studente a Firenze. Terribile la sorte di una giovane madre e dei suoi tre figli di Montenerodomo, falciati dai tedeschi in una grotta sopra Selvoni per punire il marito che era sfuggito ad una loro retata. Domenico Troilo, che presidiava la postazione di Fallascoso, raccontava questa storia facendo filtrare un senso di raccapriccio e di umana pietà. I tedeschi temevano i patrioti, per questo furono brutali e senza pietà a Sant’Agata di Gessopalena, a Pietransieri di Roccaraso, ma anche a Montenerodomo, a Palena, a Fara San Martino e in decine di altri posti. Solo fame, distruzioni e morte.

Gino Melchiorre

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