Palmoli

La lettera dell’amica e 30 foto che possono riportare a casa i bimbi, nuovi documenti per la famiglia nel bosco

23 Dicembre 2025

È la donna che li ha ospitati a Bologna, in un’abitazione con acqua e luce. Depositate le immagini che smentiscono una vita isolata dei fratellini

PALMOLI. Una testimonianza che arriva dal passato per riscrivere il futuro, un racconto di vita quotidiana che potrebbe sgretolare il muro di pregiudizi eretto attorno alla famiglia del bosco. Tra le decine di pagine che compongono il fascicolo ora al vaglio del tribunale per i minorenni dell’Aquila, spunta un documento che ha la forza dirompente della normalità. Si tratta di una lettera, scritta con cuore e lucidità dalla donna che, lo scorso anno, ha aperto le porte della sua casa in provincia di Bologna a Catherine Birmingham e ai suoi tre figli. In quel periodo, la madre era fuggita lontano da Palmoli, spinta dal terrore che gli assistenti sociali potessero strapparle i bambini, ma quella fuga non si era trasformata in una latitanza selvaggia. Al contrario, come emerge dalle righe scritte dall’amica emiliana, si era tradotta in una parentesi di vita assolutamente ordinaria, fatta di socialità.

Questa lettera rappresenta ora una delle chiavi di volta per la difesa, affidata agli avvocati Marco Femminella e Danila Solinas. Il documento, infatti, contesta alla radice la narrazione che ha dipinto i tre fratellini – la maggiore di otto anni e i due gemelli di sei – come piccoli “selvaggi” impauriti dalla civiltà. La testimone racconta un’altra verità, rileggendo comportamenti che erano stati interpretati come segnali di disagio. Quando i bambini si mostravano sorpresi davanti al getto di un soffione della doccia o all’accensione della corrente elettrica, non stavano manifestando il terrore di chi non ha mai visto la tecnologia. Secondo la ricostruzione fornita alla magistratura, quella reazione era dettata dalla pura curiosità infantile, dalla volontà di giocare con l'acqua e con la luce. La casa bolognese che li ha ospitati per mesi non era una grotta né un rifugio di fortuna, ma un’abitazione dotata di tutti i comfort moderni, dove i piccoli hanno vissuto immersi in quella che il mondo definisce “normalità”.

L’importanza di questa missiva risiede nella sua capacità di smontare l’accusa più pesante: l’isolamento sociale. La donna racconta di vacanze fatte insieme, di uscite, di incontri. I figli di Nathan e Catherine non erano fantasmi nascosti al mondo, ma bambini che interagivano, viaggiavano e scoprivano realtà diverse dal bosco abruzzese. E per dare corpo e colore a queste parole, la difesa ha calato sul tavolo dei giudici un album fotografico composto da circa trenta scatti. Non sono immagini rubate o sfocate, ma ritratti nitidi di felicità familiare che Nathan e Catherine hanno scattato, come fanno tutti i genitori del mondo, per fissare i momenti di gioia e avere un ricordo della crescita dei propri figli.

Scorrendo queste immagini, la tesi del “disadattamento” sembra vacillare. Le foto ritraggono i bambini al mare, mentre fanno il bagno sorridenti insieme a papà Nathan, in un contesto di assoluta serenità. Ma è un altro dettaglio, apparentemente banale, a caricare queste immagini di valore: la plastica. Nelle relazioni degli assistenti sociali che hanno portato all’allontanamento, si era sostenuto che i bambini fossero “impauriti” dagli oggetti di plastica, quasi fosse un materiale alieno per chi era cresciuto nel culto della natura incontaminata. Le fotografie depositate in tribunale raccontano una storia diversa.

In quegli scatti, i giudici possono vedere i tre fratellini seduti composti ai tavolini di un bar, mentre mangiano il gelato utilizzando proprio quei famigerati cucchiaini di plastica. Nessun terrore, nessuna ritrosia, solo il piacere goloso di una merenda estiva. E ancora: le immagini mostrano i piccoli intenti a giocare con miniature di animali, rigorosamente di plastica, o immortalati mentre si divertono all’interno di macchine a gettoni – anch’esse di plastica e colorate – nei corridoi di un centro commerciale. Li si vede camminare tra gli scaffali di un supermercato, vestiti come tutti i coetanei, perfettamente a loro agio tra le luci al neon e i prodotti industriali. Non c’è traccia di spaesamento, ma solo l'immagine di tre bambini che vivono il loro tempo, capaci di adattarsi al bosco così come alla città.

Queste prove documentali, unite alla lettera dell’amica bolognese e ai racconti di altre testimonianze, mirano a dimostrare che l’equazione “vita nel bosco uguale isolamento patologico” è errata. I bambini conoscevano il mondo esterno, lo frequentavano e ne usavano gli strumenti, dalla doccia calda al cucchiaino del gelato. Tutto questo materiale è ora sul tavolo del tribunale per i minorenni dell’Aquila, chiamato a un compito gravoso e urgente. I giudici di primo grado devono valutare se questi elementi, uniti agli «apprezzabili progressi» già riconosciuti dalla Corte d’appello nel provvedimento di rigetto del reclamo, siano sufficienti a decretare il rientro a casa. La Corte d’appello, infatti, pur confermando la legittimità dell'intervento d'urgenza scattato il 20 novembre, ha demandato al tribunale di merito la valutazione dell’oggi. Ha certificato che un mese fa c’erano le condizioni per intervenire, ma ha anche aperto uno spiraglio sul cambiamento avvenuto. Nathan e Catherine hanno accettato i vaccini, hanno trovato una casa “normale” grazie al ristoratore Armando Carusi, hanno aperto alla scuola. E ora, con queste foto e questa lettera, provano a dire che anche il passato non era così oscuro come è stato descritto.

Tuttavia, mentre la giustizia macina i suoi tempi, il calendario impone la sua legge crudele. Il rischio che Nathan Trevallion trascorra il Natale lontano dai suoi figli si fa ogni ora più concreto. Anche ieri non è arrivato alcun provvedimento dal tribunale aquilano che potesse sbloccare la situazione in extremis. A questo punto, non è più da escludere che il 25 dicembre sia un giorno di festa mutilato. Per una coincidenza del calendario, giovedì – giorno di Natale – cade proprio in uno dei turni di visita già accordati dai servizi sociali. Questo significa che Nathan potrà vedere i suoi bambini, ma solo per l’ora canonica prevista dal protocollo, all’interno della struttura protetta. Un’ora per scambiarsi i regali, per abbracciarsi, per cercare di comprimere tutto l'amore in sessanta minuti sotto lo sguardo degli operatori. Ma la speranza non è ancora del tutto spenta.

Non è da escludere, infatti, che il padre possa ottenere un permesso speciale, un'estensione oraria che gli consenta di trascorrere almeno il pranzo di Natale con i figli. Sarebbe un piccolo gesto di umanità all’interno di una procedura rigida, un modo per permettere a una famiglia divisa di stare insieme nel giorno più significativo dell’anno. La lettera di Bologna e le foto del gelato restano lì, agli atti, come testimoni di una normalità rivendicata. Raccontano che l'amore di questi genitori non era fatto solo di scelte radicali, ma anche di vacanze al mare e di giochi al centro commerciale. Ora spetta ai giudici decidere se quella normalità documentata, unita ai passi avanti compiuti nelle ultime settimane, è abbastanza per ricucire lo strappo. Fino all’ultimo minuto utile, Nathan aspetterà un segnale, pronto a correre a Vasto non per un’ora d’aria, ma per riprendersi la vita che gli è stata sospesa.

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