Omicidio Calvi, si sfoga il sospettato

6 Agosto 2011

Per un anno è stato sospettato di omicidio, adesso la sua posizione è stata archiviata. Il racconto: "E' stato un incubo, io accusato ingiustamente del delitto. Mi sembrava un film"

CHIETI. Per un anno è stato sospettato di omicidio. E' entrato nella centrifuga della giustizia italiana: indagini a tappeto, intercettazioni e verifica dei movimenti effettuati negli ultimi anni. Lui e il figlio. D.M., pittore edile con l'hobby della musica, per un anno è stato indagato per il delitto di Ofelia Calvi, la donna di 83 anni, proprietaria di un negozio di giocattoli, trovata morta il 4 gennaio del 2006 nella sua abitazione in via De Lollis a Chieti. Dalla vicenda è uscito fuori nelle scorse settimane, grazie al decreto di archiviazione proposto dal pubblico ministero Giuseppe Falasca e controfirmato dal gip Marco Flamini.
«E' stata la fine di un incubo», sostiene D.M., di Chieti, che al Centro ha raccontato il suo calvario giudiziario.

Come ha vissuto questa vicenda?

«Male, molto male. Sono stato accusato ingiustamente. E' come aver vissuto un film con una parte che non mi apparteneva. Devo ringraziare il mio avvocato, Marco Bevilacqua, che oltre al supporto legale è stato molto importante sotto il profilo psicologico».

Come è entrato nell'inchiesta?
«Passeggiavo per Chieti una mattina del giugno del 2010. Sono stato fermato da un paio di poliziotti in borghese e portato in caserma. Lì mi hanno tenuto per otto ore. Mi hanno torchiato, come si dice in gergo. Io sotto interrogatorio e mia moglie e mia figlia fuori nel corridoio ad aspettarmi. Poi, ho subito una perquisizione a casa».

Che cosa le ha procurato amarezza?
«Il modo in cui sono stato trattato. Non tanto dagli uomini della polizia di Chieti che hanno mantenuto un comportamente rispettoso, piuttosto dai colleghi di Roma, quelli dell'Unità delitti irrisolti. Volevano che confessassi, ma che cosa dovevo confessare se io in questa vicenda non c'entro niente?».

E come sono arrivati a lei?
«Secondo quello che ho appreso, erano convinti che il braccialetto che ho venduto a un negoziante fosse lo stesso scomparso un anno prima dall'abitazione della signora uccisa. E, invece, non è così. Quel braccialetto apparteneva a un mio familiare e comunque era diverso».

Che cos'altro ricorda dell'interrogatorio?
«Io ero in una stanza e mio figlio in un'altra. A un certo punto, arriva un poliziotto e mi dice: Parla, perché tuo figlio ha confessato". E io: ma che cosa devo dire? Che cosa devo confessare?».

Scusi, ma lei quel giorno dov'era?
«Eccola finalmente la domanda chiave, quella che nessun poliziotto mi ha fatto. Ero con i miei familiari. Ma da me non volevano sapere dov'ero, si aspettavano solo la confessione».

Interrogatorio, perquisizione e poi?
«Sono stato intercettato in tutti i modi. Con le cimici e non solo. Mi hanno messo il Gps due volte sotto la macchina. La prima volta l'ho scoperto per caso. Ero ignaro di tutto quello che mi stava accadendo, tant'è che sono andato dai carabinieri per denunciare l'accaduto. Poi, ho saputo che quell'aggeggio era stato posizionato sotto la mia macchina dalla polizia».

Ha avuto paura?
«Io sapevo di non aver fatto niente, ma la polizia era convinta del contrario. Quindi, paura l'ho avuta. La notte mi svegliavo di colpo, questa vicenda mi ha sfibrato psicologicamente. La mia fortuna è stata quella traccia del Dna trovata sul giaccone della signora. Siamo stati noi, io e il mio avvocato, a sollecitare l'esame del Dna. Grazie a questo strumento tecnologico ho potuto dimostrare la mia innocenza. In caso contrario non so come sarebbe andata a finire».

Suo figlio era accusato di rapina.
«A pezzi anche lui, ripeto, è stato un incubo».

Qual è stato il momento più difficile?
«Nell'agosto scorso quando un settimanale a tiratura nazionale ha raccontato la storia con chiari riferimenti identificativi verso il sottoscritto. Sono stato messo alla berlina. Pensi che in quell'articolo c'erano elementi dell'inchiesta che nemmeno il mio avvocato conosceva. Ora pretendo che qualcuno paghi: ho denunciato la fuga di notizie. La giustizia ha fatto il suo corso con me, adesso voglio che accada la stessa cosa verso chi ha decretato la mia morte civile».

Si sente addirittura in questa condizione?
«Mi sono ritrovato sospettato di omicidio e gettato in pasto all'opinione pubblica. Chieti è piccola, la voce circola velocemente».

Ripercussioni?
«Sono un pittore edile, progressivamente ho perso il lavoro. D'altronde chi si mette in casa una persona accusata di omicidio? E così, un po' alla volta, mi sono ritrovato senza risorse economiche. E con il passare del tempo, ho avuto anche problemi in famiglia».

E adesso cosa desidera, da dove vuole ricominciare?
«Vorrei che fosse chiaro a tutti che sono una persona pulita. Vorrei che la gente avesse di me la stessa considerazione di un anno fa. Vorrei che questa vicenda venisse cancellata».

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