Padre-padrone nella casa degli orrori: «Botte per i compiti e sonno negato». Manager d’azienda nei guai

Chieti, un manager sott’accusa per l’inferno domestico a cui ha sottoposto le due figlie fino a 7 e 9 anni: «Obbligate a trattenere i bisogni e a lavare a mano i vestiti sporchi»
CHIETI. Le mani dovevano restare immobili, appoggiate sulla tavola per tutta la durata dei pasti. Piccole mani di bambine trasformate in fermacarte di un rituale del terrore, un silenzio irreale rotto solo dal rumore delle posate e dal timore di un rimprovero. In quella casa di Chieti, ogni boccone lento, ogni richiesta di andare in bagno, ogni sguardo incerto poteva scatenare un’ira cieca. Per anni, secondo la procura della Repubblica, le mura di un’abitazione sono diventate il perimetro di un inferno domestico, un regno governato da un uomo con la brutalità di un padre padrone. Le pareti domestiche celavano un dramma invisibile all’esterno, consumato dietro la facciata di una famiglia al di sopra di ogni sospetto: l’uomo, un manager d’azienda, ha agito in un contesto protetto da una patina di assoluta rispettabilità.
Un’inchiesta condotta dai poliziotti della squadra mobile teatina ha scoperchiato un abisso di violenze fisiche e psicologiche consumate ai danni delle sue due figlie, costrette a subire umiliazioni indicibili, rispettivamente fino all’età di 7 e 9 anni. La richiesta di rinvio a giudizio per maltrattamenti aggravati e continuati, notificata all’imputato, disegna il ritratto di una tirannia familiare durata fino al giugno 2020 per la più grande delle sorelle e fino al settembre dello stesso anno per l’altra.
Il tempo, in quella casa, sembrava essersi fermato a un codice di regole assurde e spietate. L’atto firmato dal pubblico ministero Lucia Anna Campo descrive un’ossessione per il controllo che trasformava ogni momento della giornata in un potenziale supplizio. A tavola, entrambe le bambine erano costrette a tenere le mani in vista, immobili, senza poter andare in bagno se ne sentivano la necessità, una regola ferrea in cui ogni pasto assumeva i contorni di una prova di resistenza fisica e psicologica. Se non obbedivano, la punizione erano botte e urla. Anche i compiti diventavano un momento di angoscia: il padre, secondo l’accusa, si metteva alle loro spalle mentre cercavano di studiare, una presenza incombente pronta a punire con le percosse il minimo errore. Il naturale processo di apprendimento era un’esperienza traumatica. Un tormento quotidiano che si ripeteva con una metodicità agghiacciante, facendo vivere le minori in un costante stato di paura, come sottolinea lo stesso atto della procura. L’uomo, difeso dall’avvocato Gianluca Lanciano, dovrà ora rispondere di queste accuse. Le due bambine e la loro madre, parti offese nel procedimento, sono invece assistite dall’avvocato Manuela D’Arcangelo.
Alla violenza psicologica delle regole si aggiungeva quella delle parole, usate come armi per ferire e umiliare. La richiesta di processo elenca un terribile campionario di insulti che venivano scagliati contro le figlie: «Stupida», «cretina», «mongoloide», «stronza, «mani di cacca». Un fiume di umiliazioni verbali volto a demolire la loro autostima. La crudeltà descritta negli atti giudiziari andava però oltre, fino a toccare vertici di sadismo. In un’occasione, dopo aver costretto una delle figlie a mangiare delle lenticchie che lei non gradiva, e dopo che la bambina aveva vomitato nel piatto, il manager l'ha obbligata a mangiare il proprio vomito. L’orrore non si fermava nemmeno di fronte ai legami familiari più sacri. Durante la separazione personale, l’uomo ha terrorizzato le figlie con una balestra, un’arma tenuta in casa, affermando che l’avrebbe usata se avessero scelto di andare con la madre. A questa minaccia si somma una pressione psicologica insostenibile: le avrebbe costrette, persino in un contesto formale come quello di un’aula giudiziale, a dichiarare di voler restare con lui, e a mentire alle forze dell’ordine, accusando falsamente la madre di essere violenta. Il tutto condito da un’altra raffica di insulti, con epiteti come «balena», «capra nera», «scrofa» e «maiale».
La prigionia non era fatta solo di violenza fisica e verbale, ma anche di sistematiche condotte coercitive, studiate per annientare la volontà. Una delle bambine, dopo essere stata percossa perché non era riuscita a trattenere le feci, sarebbe stata costretta a subire l’ulteriore umiliazione di restare in piedi al centro di una stanza come punizione, e a lavare a mano gli indumenti sporchi. La loro crescita era minata alla base. Per l’altra figlia, lo studio diventava un altro strumento di tortura. Il padre, secondo la ricostruzione, la picchiava e la costringeva a restare sveglia fino a tarda ora, perché non aveva ancora imparato l’alfabeto. Invece di aiutarla, la picchiava per la sua incapacità di apprendere e le negava il sonno, strappandola al riposo se non avesse memorizzato tutto. Una persecuzione notturna che si aggiungeva a quella diurna, aggravando il clima di terrore in cui le sorelle erano immerse. Il percorso che ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio è stato complesso. Inizialmente, il procedimento per maltrattamenti sulle bambine era stato archiviato, perché le loro dichiarazioni erano state valutate contrastanti e, quindi, non pienamente credibili. La svolta è arrivata dal tribunale civile: nel corso della causa di separazione dei genitori, una consulenza tecnica d’ufficio ha certificato la piena attendibilità delle sorelle, spingendo un giudice a ordinare la ritrasmissione degli atti ai pubblici ministeri.
A quel punto la Procura ha riaperto il caso, chiedendo e ottenendo un incidente probatorio. Durante questa audizione protetta, le due bambine, cresciute nel frattempo di quasi quattro anni, hanno confermato il racconto degli abusi subiti. E ora la richiesta del pm cristallizza la ricostruzione basata su anni di comportamenti reiterati che avrebbero leso l’integrità fisica e psicologica delle figlie, in un periodo cruciale per la loro crescita, trasformando la figura paterna in quella di un aguzzino. Un’infanzia intera, durata per anni e conclusasi nel 2020, scandita non dall’alfabeto che non riuscivano a imparare, ma da un dizionario di umiliazioni che non potranno dimenticare.
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