Suor Vera, un po’ santa e un po’ manager

Il Centro entra nel Villaggio della Speranza di Chieti che accoglie profughi e ragazze madri, ma è anche un’azienda

Un brulicare di suore come api operaie, volontari, ospiti, fedeli delle parrocchie vicine, pellegrini che vengono in pullman da fuori regione. Tutti in fermento in un procedere sicuro ma lento. Come Svetonio insegna, festina lente (affrettati lentamente) è il motto che sembra muovere circa 200 persone che tra qualche ora (è la domenica delle Palme) metteranno in scena la Passione. Dal processo al sacrificio estremo di Cristo. Alla cabina di regia c'è lei,
suor Vera D'Agostino, la madre superiora del Villaggio della Speranza, della Fondazione Figlie di Gesù e di Maria, che dal 1982, prima in un fazzoletto di terra, oggi tra grandi aree che spaziano in una delle frazioni più belle di Chieti, Brecciarola, condivide insieme a 54 sorelle, la quotidiana Passione di quegli esseri umani reietti, poveri, malati, minori abbandonati, anziani soli, ragazze madri. Ma anche di chi nel corso della vita, gravato dalle inevitabili preoccupazioni, trova la soluzione nell'aiutare gli altri. Per la prima volta, dopo 28 anni che è nato il Centro, si riesce ad entrare nel "regno", di suor Vera.

La madre che, lo ha detto lei, «non ama la stampa», un po’ santa e un po’ manager, «chiacchierata» perché c'è chi dice che la sua opera di carità in realtà è un business in quanto lucrerebbe sulle vocazioni delle sorelle, assumendone la dote, e sulle necessità di chi ha bisogno. L'ultima occasione di chiacchiericcio è stata offerta dai 40 profughi prima e 50 poi che sono stati ospitati da lei a 30 euro al giorno. Ma di questa convenzione che avrebbe dovuto ratificare il prezzo del rimborso dello Stato, mostrata dagli addetti della prefettura nei primi giorni, sembra sia sparita ogni traccia. A farci da Virgilio di dantesca memoria, in questo piccolo viaggio è Antonio Cieri, il proprietario della nota boutique di corso Marrucino Ribò, uno dei tanti volontari che dedica molta parte del suo tempo libero ad aiutare a mandare avanti questa immensa macchina di carità. «Ho attraversato un periodo difficile», ci dice Antonio «e quando mi sono presentato suor Vera me lo ha letto negli occhi. Qui siamo davvero una famiglia, ci vogliamo bene tutti». Dice prima di imboccare con l'auto il lungo viale sterrato e costeggiato da filari di ulivi che ci conduce nella occasionale Cinecittà della rappresentazione della morte Cristo. La prima persona che incontriamo è suor Carmen, l’unica suora in «tonaca».

Lavora la ceramica negli ultimi ritocchi ad un arco. «La vera artista è la madre», dice timidamente. Suor Vera realizza di notte, quando tutti dormono, presepi a tema di tutte le fogge. Si continua il percorso e sotto dolci pendii della collina, c'è il quadro dell'ultima cena, del Sinedrio dove Gesù verrà processato, del Golgota con le tre croci ora adagiate che tra un po’ si alzeranno nel clou della rappresentazione. Tra qualche ora la scenografia si illuminerà. L’artefice è suor Raffaella, in casacca e pantaloni, simpaticamente chiamata «suor Enel», per lei il mondo di Edison non ha segreti. Crea, aggiusta tutto ciò che è elettricità, lo dice una pinza infilata nella tasca posteriore dei pantaloni.

Con lei suor Donatella, una cascata di simpatia. Antonio prende il cellulare e dice: «Stellina dove sei?», il diminutivo confidenziale è rivolto a suor Vera. Dopo qualche minuto la incontriamo con un foglio in mano, un planet program. Il suo magro e androgino fisico veste una sorta di tuta scura. Occhi nerissimi rivelano le origini magrebine. Un abbraccio lungo con Antonio. «Allora vuoi far fare tu un giro?». «No pensaci tu», dice la madre mentre si ha il tempo di fare un clic, «Quella fotografia ora la distruggi», mi intima. Nei suoi occhi la forza di chi sa come imporsi. «No, suor Vera, la foto non la distruggo e la pubblico. Sono sincera». Un sorriso ci lascia andare.

Suor Vera si eclissa. Un caffè per riprendersi sotto una pioggerellina che non scoraggia i figuranti. Alla cassa del bar c'è Sara che, come in un cinema di altri tempi, stacca le ricevute per le consumazioni. Vicino un alimentari. Latte fresco, barattoli sott’olio, marmellate, conserve di pomodori, vino, olio, tutto prodotto dall’azienda agricola dove lavorano suore e volontari, un pezzo di produttività con il quale il Villaggio della speranza si autofinanzia. La cuoca è suor Mirella con Flora, ex operaia della storica Iac, ora volontaria, per l’occasione commerciante. Ma come in amministrazioni democratiche che si rispettino, i ruoli non sono fissi, per non creare centri di potere. Più in là c’è una mostra mercato dove sono esposti ricami, lavori artigianali, tovagliette, lenzuola, pupazzi per i più piccoli, fiori di pezza. Creazioni realizzate dai parrocchiani, volontari, famiglie. Un’altra piccola fonte di finanziamento per la comunità. Pulite e grandi stalle per le mucche, vicino le pecore. Una suora di colore Bibiana ci accoglie. Eppoi il ricovero per cavalli. Ce ne sono diversi, una decina, guardati da due grandi cani bianchi. Qualcuno appartiene a qualche cittadino che paga la pensione. Gli animali servono per la ippoterapia dei più piccoli, quelli che vivono il dramma dell’abbandono.

Ad occuparsi degli animali sono tre ragazzi Massimo, Paola e Emanuele. Insegnano equitazione. Ma ecco che arriva il pezzo forte. Quella che si occupa dell’amministrazione di questa complessa e grande struttura, il «colletto bianco» del villaggio della Speranza, suor Ada, l’alter ego di madre Vera, che di lei smentisce l’egemonia. «Fa tutto quello che diciamo noi».

Racconta la sua storia: nasce da madre emiliana, origine di cui conserva il senso pratico e forte. Con una educazione socialista anche se il padre era cattolico. «Atea e anticlericale, criticavo mio padre perché frequentava suor Vera. “Vai da quella Santona” gli dicevo. Poi un giorno la madre di una mia amica si ammalò, era in fin di vita. La accompagnai qui, quando suor Vera mi vide disse: “ti stavo aspettando” “a me, ma chi ti conosce” risposi. Pochi giorni dopo la madre della mia amica guarì. Da allora non me ne sono più andata».
Suor Ada racconta di come nasce tutta questa avventura Con la casa madre dove ora ci sono 15 ragazze madri, 5 minori, diverse famiglie povere, anziani.

«Abbiamo cominciato con 10 mila lire», dice, «e la grande solidarietà di alcune famiglie teatine come De Matteis. Hanno accusato madre Vera di fare lucro. Quale lucro? La madre fa solo mutui e la provvidenza ci aiuta a pagarli». Eppoi c’è Silvia, una giovane fedele di Turrivalignani. Lei qui ha trovato l’amore, Francesco. Si sposeranno. «Perché qui lo scopo principale è la famiglia», conclude suor Ada.