Alcide Pierantozzi: «Il mio romanzo nasce dalla terra» 

L’autore abruzzese ambienta tra Val Vibrata e Pineto una storia (edita da Bompiani) di violenza e fragilità

«Questo ragazzo, che sembra Bob Dylan, è un giardino. Anzi, un magnifico orto». Viene fuori tutto l’ incanto di bambino e la sincera meraviglia di Ermanno Olmi in queste parole che il maestro usò per Alcide Pierantozzi al Festival letterario della Sardegna che il poeta della terra e degli ultimi frequentava spesso e dove incontrò il giovanissimo scrittore venuto dalla striscia al confine Nord dell’Abruzzo – nato a San Benedetto del Tronto nel 1985 e cresciuto a Colonnella, tra i campi della Val Vibrata e il mare – e deciso a conquistare la scena letteraria a Milano.
Pierantozzi esordisce nel 2006 con il romanzo dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini “Uno in diviso”(Hacca), un caso editoriale e di cui è stata pubblicata una graphic novel (Tunué 2013). Pubblica con Rizzoli i romanzi “L’Uomo e il suo amore” (2009) e “Ivan il terribile” (2012); racconti nell’antologia “Le cose cambiano” (Isbn-Corriere della Sera). Nel 2014 lo scrittore non ancora trentenne affronta la via Francigena a piedi e questa esperienza confluisce in “Tutte le strade portano a noi” (Laterza, 2015).
Da poche settimane è in libreria, edito da Bompiani il suo nuovo romanzo, “L’inconveniente di essere amati”: generazionale, intimista, crudo, ambientato in un paese che non esiste, Calanchi, in cui sono però riconoscibili i luoghi dell’infanzia e adolescenza dello scrittore, dai paesaggi agli idiomi, dalle spiagge alla campagna. I personaggi di Pierantozzi sono disagiati, violenti, arrabbiati con gli altri e con sé stessi per la loro incapacità di reagire agli schiaffi della vita. Il protagonista è Paride Negri, cantante di 33 anni che vive a Milano e che torna nel suo paesino arroccato tra Marche e Abruzzo dopo una violenta lite con il compagno, il produttore discografico cocainomane Sandro Maraffa. Paride ritrova l’amica Francesca e raggiunge la casa dei nonni, dove ora vivono lo zio Beppe, la bella Sonia e il piccolo Gianmaria. I capitoli si susseguono alternando il punto di vista femminile a quello maschile. Tutti i personaggi hanno caratteri ben definiti, sono reali e credibili, apparentemente forti e disinibiti ma fragili: come nei Demoni di Dostoevskij i più tormentati sono quelli che meno lo danno a vedere. L’introspezione acquista importanza tramite i monologhi interiori: flussi di coscienza, ricordi e pensieri reiterati. Le scene di sesso sono di un realismo che rimanda a Henry Miller: autentiche, dettagliate ma senza sbavature. Gli eventi traumatici del passato dei protagonisti vengono accennati alla fine del capitolo e spiegati nel successivo tramite il meccanismo del flashback, insinuando nel lettore la curiosità di continuare la lettura, come nello spettatore per la nuova puntata di una serie tv.
Pierantozzi che effetto le fa ricordare quella piccola descrizione che di lei fece Olmi?
È successo tanto tempo fa, a volte mi sembra di aver già vissuto sue vite. Ho esordito 16 anni fa a 19 anni e ho conosciuto gente grandissima che ora è morta, Eco, Severino soprattutto. Ti ritrovi giovane ma vecchio. Ho i brividi se ci penso.
È tornato a Colonnella dopo il lockdown a Milano, come è andata?
Ho fatto una quarantena rigorosissima, non sono uscito neanche sotto casa, nel mio palazzo c’erano 5 casi, ne sento ancora gli strascichi emotivi. Io poi mi alleno 5 ore al giorno, da qualche anno ho dato una disciplina alla mia vita, corro, invece prima mangiavo male, non mi curavo di me. La pandemia mi ha destabilizzato. Tra l’altro avevo il libro che doveva uscire il 16 marzo e procrastinavano di settimana in settimana. La prima ondata di lettura è stata on line, ma è strano interagire così con i lettori, e poi ho visto fisicamente il libro per prima volta pochi giorni fa alla Coop di Porto d’Ascoli.
Come e quando nasce “L’inconveniente di essere amati”?
Il titolo era nella mia testa da tempo: nel 2008 avevo letto da poco “L’inconveniente di essere nati” di Cioran, e avevo ribaltato il titolo in poche pagine. Mi è rimasto in testa, poi ho scritto altro. Due anni fa – era un periodo disastrato emotivamente, non scrivevo, crisi, lutti – arriva un consulente di Bompiani che mi chiede se avevo qualcosa. Mi sono come risvegliato da uno stato confusionale, costretto da un contratto, con poco tempo per scrivere. Provo a sfiancarmi e piano piano ho trovato un varco che mi ha permesso di aprirmi da un punto di vista emotivo, e raccontare quello che avevo attorno e dentro. Il paese Calanchi in realtà è Teramo, Pineto nel finale, Pescara, Colonnella, Martinsicuro, ci sono indicazioni fisiche, bar alberghi, ma Calanchi non esiste, perché le storie del libro sono forti, c’è quasi un incesto, il conflitto morale del protagonista per questa cosa prima che per il suo essere gay. E non volevo un paese vero.
Teme la provincia?
C’è una vena nostalgica, dolente, leopardiana che i giovani che abitano dalla Vibrata a San Benedetto, da Pescara a Riccione hanno, sono zone di profonda libertà creativa. Anche di violenza. Mare e montagna sono così vicini che non dobbiamo fare mai una scelta precisa, possiamo andare da entrambe le parti. Anche i miei protagonisti possono andare da una parte all’altra, essere donna e uomo, senza problematicizzazione sociale o politica, c’è un meccanismo ancestrale che li spinge, in bilico tra sfregio e santità, esagerazione virile e femminilità, rabbia e bontà, cliché che nascondono creatività tipica delle nostre zone. Penso a D’Annunzio e Leopardi.
Nel libro grandi temi: amore, paura, coraggio e libertà...
Sì. Quella donna con il marito assente, classico maschilista che butta i pesce che lei cucina lei non lo può lasciare per la pressione sociale, famiglia, soldi. E trova uno spazio di libertà nella sua stessa casa, dove arriva Paride. Sonia emana tutti i temi del libro. Il movimento di legame tra lei e Paride è il bambino: per la prima volta incontra un uomo che sa trattare il suo bambino problematico. Lei è in un momento di sogni falliti, solo il bimbo è luce e l’unica scelta che può fare è di innamorarsi di un uomo che ama suo figlio.
Il luogo d’origine e i legami affettivi le sono serviti per l’intreccio?
Sono tra i temi fondamentali della poesia di Attilio Bertolucci. Ho riletto “La camera da letto”e mi ha guidato nel raccontare la poesia delle cose semplici ma non banali, l’uso di intercalari dialettali.
Cosa sono per lei le radici e quanto influiscono sulla sua opera?
Sono cresciuto con i miei nonni contadini che parlavano in dialetto, l’adolescenza è stata un disastro, sono stato bocciato 3 volte perché volevo fare lo scrittore e non potevo perdere tempo. Quando ho scritto il primo libro mi faceva ridere sentir dire: “uso di arcaismi”. Sono giri di frase che invece io pensavo che si potessero dire, era un tocco infantile che pareva magico ma che era il frutto di essere stato un autodidatta. Ho vissuto in un contesto emotivamente forte, a contatto con animali, maiali, polli. Detesto la retorica della natura tipica del cittadino. C’è una scena nel libro in cui 2 si incontrano in un campo assolato e ho messo la lattina di Sprite per uscire dalll’artificiosità della campagna buona e bella: io ci sono nato in quel mondo, è crudo, ho visto ammazzare animali, bestemmiare perché non piove. Io dovevo assolutamente raccontare quello che avevo visto.
I suoi nonni hanno poi letto i suoi libri?
Non li capivano: li trovai che leggevano: “ma dove le prendi le parole? In televisione?”.
Scena di sesso nel libro definita “da applauso”. È difficile scrivere di sesso?
È lo stesso ragionamento: la crudezza della campagna da descrivere senza retorica e non ho remore a raccontare il sesso come è, senza orpelli letterari. Non è la parola a rendere volgare una scena.
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