Cecilia Sala racconta al Fla l’odio tra Iran, Israele e Palestina: viaggio tra i figli della rabbia

La giornalista rapita a Teheran presenta al teatro Massimo il suo libro: «C’è una faglia generazionale che attraversa tutto il Medio Oriente»
PESCARA. «Sempre felice di tornare qui in Abruzzo»: così Cecilia Sala, giornalista e reporter internazionale recentemente rapita in Iran, prima del suo incontro al Fla di questa sera ore 21. Al teatro Massimo di Pescara presenterà il suo nuovo libro, I figli dell’odio (Mondadori). Da qui partiamo.
Viaggiando in tutto il Medio Oriente, dove lo ha visto, toccato con mano? Iniziamo da Israele.
«La manifestazione più ovvia della radicalizzazione israeliana si vede dal suo governo, il più estremista della storia, e dai suoi ministri Smotrich e Ben-Gvir. La parte dedicata a Israele del libro, infatti, parte da uno striscione che ho visto sventolare a ragazzine colone di 13 anni a Hebron: “Se tua moglie non è ebrea, cacciala di casa insieme ai figli che ti ha dato”. Mi ha colpito un messaggio del genere in mano ad adolescenti. Da lì ho iniziato a indagare su Lehava, un’organizzazione legata alla destra estrema che si batte per la segregazione etnica tra palestinesi e israeliani con cittadinanza. Loro sono per l’espulsione dei palestinesi da Gaza e Cisgiorgania: rappresentano la parte più radicale, certo. Ma ci raccontano di una faglia generazionale che attraversa il paese».
Cioè?
«Il 70% dei giovani israeliani oggi è contro la soluzione a due Stati, mentre negli anni ’90 i loro genitori erano per la maggior parte a favore. È una dimostrazione: israeliani e palestinesi si odiavano e si facevano paura 50 anni fa meno di 20 anni fa, e 20 anni fa meno di oggi. Un processo inesorabile di peggioramento che è legato all’ideologia dei coloni estremisti in Cisgiordania».
Al di là dell’odio per i palestinesi, è possibile che gli israeliani non si sentano compresi dall’Occidente?
«Si, non si sentono capiti e forse non sono interessati a cosa possano pensare di loro gli europei (per gli americani è un altro discorso). Gli europei non hanno capito che gli israeliani ci considerano anziani, viziati, che vivono nella parte più ricca e sicura del mondo e pensano che la storia sia finita. A loro di perdere l’appoggio di centinaia di milioni di europei non importa nulla; preferiscono essere adorati da un miliardo e mezzo di indiani. Un popolo che odia i musulmani: il sostegno massimo a Israele lo vedo anche da attori israeliani. Perdere l’Europa ma conquistare l’India va bene lo stesso».
Passiamo alla Palestina. La Reuters riporta oggi che a ottobre si sono contati 264 attacchi in Cisgiordania e non stiamo parlando neanche di Gaza, completamente rasa al suolo. Qui, i figli della distruzione, cosa ne penseranno di Israele?
«Per parlare dei palestinesi, nel libro parto da una storia familiare a Jenin, nella Cisgiordania settentrionale, dove un padre rinuncia alla lotta armata fidandosi di Arafat e degli accordi di Oslo, pensa che la diplomazia sia la strada per confrontarsi con un paese che ha bombe atomiche mentre loro combattono con le pietre. Invece suo figlio Firas, nonostante gli insegnamenti del padre, abbraccia la lotta armata in segreto: ha tre fucili d’assalto americani e morirà a 19 anni tentando di tendere un’imboscata alle truppe israeliane. È un evento specifico, ma spesso nel mio lavoro parto da storie che ci raccontano di un sentimento molto forte tra i giovani maschi palestinesi della Cisgiordania».
Cioè?
«Loro dicono: “La diplomazia ha fallito”. È una generazione che non ha vissuto il sogno di Oslo, ma è cresciuta nelle macerie di quel fallimento. Vedono ostile anche l’Anp, corrotta, che in teoria doveva traghettarli verso uno stato tutto loro ma non l’ha fatto; non li protegge dalla violenza dei coloni, dall’Idf e dall’occupazione aggressiva. E pensano: “Ora facciamo da noi”, e nascono le Brigate di Jenin e la Tana dei Leoni, milizie che non sono né Hamas né le vecchie fazioni dell’Olp. Sono sostanzialmente baby gang di giovanissimi che non vogliono rubare catenine ma sopravvivere in un contesto di violenza da cui nessuno li protegge».
Arriviamo all’Iran. Quanto c’è della sua esperienza personale, del carcere di Evin, in questo libro?
«È il finale del libro, basato sui miei viaggi, e non potevo tacere la conclusione della mia ultima trasferta persiana. Sono passata da testimone delle ingiustizie che subiscono altri a trovarmi, per una volta, nella condizione delle persone che spesso racconto. Ho trovato un Iran dove la Repubblica islamica non è mai stata così debole; non ho mai pensato che potesse cadere, ma molte ragazze oggi non portano più il velo e il regime degli Ayatollah — che deve tollerare perché non può controllarle tutte — mostra segni di cedimento. Ho trovato un Iran fragile, dentro e verso i nemici esterni».
Ovvero?
«Non era mai capitato che Israele bombardasse l’Iran, ma a giugno è successo; non sappiamo se quello era l’ultimo round o solo il primo. Ha perso pure molti alleati: Hezbollah, Assad in Siria, e anche Hamas non è chiaramente più quello di prima. Un regime con le spalle al muro e giovani che sperano nel cambiamento, nonostante la paura delle bombe israeliane e americane».
Come non si cede all’odio?
«Ricominciando a guardarsi in faccia e a parlarsi. Torniamo all’inizio: molta della radicalizzazione dei giovani israeliani dipende dal fatto che le generazioni precedenti avevano più contatti con i palestinesi; oggi gli adolescenti e i ventenni nascono con muri costruiti e con i confini di Gaza sigillati: non hanno mai visto un palestinese di Gaza o di Cisgiordania, nonostante vivano accanto. Se conosci l’altro solo tramite la televisione o il telefono che ti parla di attentati, è più facile disumanizzarlo, quindi odiarlo e ucciderlo».
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