Di Pietrantonio e Teti allo Sponz Fest contro l’eutanasia delle aree interne

La scrittrice e l’antropologo della “Restanza” ospiti della manifestazione diretta da Capossela. Il premio Strega: «Dopo anni di false promesse, si getta la maschera. Si negano servizi fondamentali»
CALITRI. «Finalmente si getta la maschera, dopo anni di falsi impegni nelle campagne elettorali. Questo abbandono delle aree interne ce l’abbiamo da sempre sotto gli occhi». A poche ore dalla formazione del fronte comune dei vescovi contro quella che è già stata ribattezzata “l’eutanasia dei borghi”, Donatella Di Pietrantonio sale sul palco dello Sponz Fest di Calitri (AV) e apre così il suo intervento che la vede dividere la scena con chi della restanza si può dire il padre spirituale e suo massimo divulgatore, lo scrittore e antopologo Vito Teti.
È un’edizione dedicata ai “Recinti di umanità” quella inaugurata lo scorso giovedì nel paese campano (4mila anime circa, nel crocevia che collega l’Irpinia alla Basilicata e alla Puglia) dalla manifestazione ideata e diretta da Vinicio Capossela, tra omaggi a Tondelli, Fofi e De Simone, concerti da Tricarico a Nino D’Angelo, da Peppe Barra alle formazioni locali e il grande spettacolo di Capossela che dal palco anticipa due inediti del suo prossimo album, Sotto il bosco di latte.
Ma la musica non si ferma mai a Calitri e c’è sempre il colpo di una grancassa a battere come un cuore pulsante, a riecheggiare per le vie del paese dove si sale e si scende, di palco in palco, fino a quello sovrastato dalla Torre di Nanno sotto cui si radunano centinaia di persone quando, il sole è già sceso, Di Pietrantonio e Teti dialogano moderati da Donatella Candela sul macrotema delle aree interne. Si apre un mondo: «Liquidare i paesi in modo semplicistico», spiega l’autore de La Restanza, «è un grave errore. Oggi si prendono provvedimenti senza capire cos’è un paese, senza chiedersi com’è cambiato questo concetto nel tempo». Per Di Pietrantonio si tratta di fare «i conti della serva, cioè capire realmente cosa è stato fatto in questi anni e cosa no, dalla viabilità agli ospedali», e cita il caso della sua Penne dove si vuole trasformare «l’ospedale storico, riferimento per tutti gli abitanti della valle vestina, in un mega-reparto di lungodegenza».
In altri termini «un buco nero che succhia risorse, un carrozzone inefficiente che spende i soldi di una sanità ridotta a uno stato di collasso generale, non solo a Penne ma dovunque nella regione». Così anche gli anziani, quelli più resistenti contro il cambiare dei tempi e i processi di gentrificazione, non si sentono più al sicuro fuori dai confini della grande città, dei servizi che oggi solo lì possono essere garantiti. A guardare le forme irregolari delle sue case color pastello e come si profilano nella vegetazione così verde e fitta che le circonda, a sentire il ticchettio delle posate che ad ora di cena esce dalle porte spalancate lungo il corso, Calitri appare come una gemma incastonata nel diadema di quel meridione profumato e musicale che per le sue vie sale e si agita come la biancheria stesa ai cavi dei balconi.
Ma quel Sud è anche il “mondo offeso” appuntato da Vittorini: quando Teti dal palco parla di un imminente «deserto con sei milioni di abitanti in meno» sembra già di poter vedere un paese diverso. «Non ci si sta rendendo conto», prosegue, «che fra vent’anni per queste scellerate decisioni politiche non solo non ci saranno ragazzi che vogliono tornare nei propri paesi al Sud, ma non ci saranno più i paesi in cui tornare». Un ragazzo del paese, che gestisce un bed & breakfast non troppo distante dal centro storico, dice che «qui i giovani sono sempre di meno, i ragazzi della mia generazione sono andati via e da ottanta siamo oggi meno di dieci di quel gruppo lì. Quelli che studiano non tornano dopo la laurea, quelli che vogliono fare famiglia non la fanno qui. Per qualche strano motivo è aumentata la plastica nell’immondizia che incontri, ma le persone vanno via. Le cose andranno sempre diminuendo ma qualcosa di piccolo si può salvare».
Cosa? Forse la chiave è in quella «complessità sinestetica del paesaggio, percepito per addizioni emotive», che produce «nostalgia», come ricorda Di Pietrantonio citando un passaggio molto amato dal testo di Teti, che aggiunge: «Oggi la nostalgia non è più di chi va via e vuole tornare, ma di chi resta». E allora «dobbiamo lasciare che anche i festival siano fatti dai locali, dalle persone del posto e come risposta alle loro esigenze. Bisogna ascoltare e capire quali sono i bisogni di chi è rimasto e a cui spetta il compito di stabilire il destino del proprio paese». E regala un’immagine: «A Gaza o nell’Amazzonia gli abitanti muoiono per difendere cose apparentemente piccole come una foresta, un lembo di terra che però, se scompare, determina la fine del pianeta, della vita stessa».
Anche la scrittrice abruzzese sale sul palco con un simbolo per Gaza: è una spilla della Palestina, immagine di una «grande frustrazione e impotenza che temo sia molto comune, su un tema che è anche quello della rappresentatività. Noi qui siamo fortunati», dice Di Pietrantonio, «perché siamo su un palco e portiamo la nostra voce. Ma siamo tutti i giorni cittadini comuni senza poteri decisionali. Non ci sentiamo rappresentati da chi questo potere ogni giorno ce l’ha e lo esercita. Anche l’Europa è debole su questo tema». E quando Teti parla di «abbandonare l’idea patinata dei borghi che i turisti visitano distrattamente», Di Pietrantonio si aggancia pensando proprio a quel delitto del Morrone che visita le pagine del suo ultimo romanzo, L’età fragile: «In Abruzzo siamo una comunità, parliamo di qualsiasi cosa. Però avevamo smesso di parlare di questo delitto, di quelle ragazze uccise su una montagna che chiunque ogni giorno può guardare dalla finestra di casa. Noi ci siamo raccontati, da “restanti”, che anche se ci mancavano molte cose, avevamo però un’aria buona, un cibo genuino, da gustare in un posto sicuro. E invece il delitto del Morrone ha sconvolto drammaticamente questa narrazione».
Ma non se n’è più parlato: «Volevamo riappropriarci delle nostre certezze a proposito di quella terra su cui ostinatamente restavamo», ma l’ispirazione si è rivelata in un giorno d’inverno allo sbucare del sole: «La neve si squagliava sulla cime delle montagne», racconta la scrittrice, «e il loro luccichio mi parlava, mi chiedeva di raccontare questa storia che non aveva avuto voce». Quando l’incontro finisce e gli applausi riempiono la grande piazza di Calitri sotto il suo bastione aragonese, il pubblico resta in attesa di uno dei gruppi locali pronto ad esibirsi, altri si sparpagliano per le vie dove qualcuno suona, qualcuno offre le “cannazze” al sugo e pane e carne di maialino nero, e si rivela la “complessità sinestetica” di un paesaggio fatto anche di case, oggetti, rovine, suoni, sensazioni. E i fulmini lontani all’orizzonte sono un’immagine fin troppo loquace della paura che tutto questo un giorno possa non esistere più.
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