Dieci anni senza Mennea  Era lui la Freccia del Sud il bianco più veloce di tutti 

Il campione olimpionico dei 200 moriva il 21 marzo 2013 a 61 anni Sfidava Borzov, Quarrie e le Porsche, Muhammad Alì volle conoscerlo

Dieci anni senza Pietro Mennea, e ancora oggi è difficile accettarlo. L’uomo che per 17 anni, dal 1979 al 1996, con quel 19’72” sui 200 metri è stato il più veloce del mondo, e simbolo di perseveranza e tenacia, ha fatto sognare milioni di italiani che si identificavano in lui, sempre lanciato verso traguardi da afferrare.
Quel ragazzo che in un viale di Barletta gareggiava per scommessa, e vinceva, contro gente su Porsche e Alfa Romeo, lui a piedi e loro al volante sui 50 metri, rimarrà per sempre nel cuore di chi ama lo sport e la maglia azzurra. Mennea era, ed è, per tutti la Freccia del Sud, nome che poi, in onore del recordman del mondo e campione olimpico dei 200 metri, è stato dato ad un avveniristico “bolide” di Trenitalia capace di toccare punte di 400 chilometri orari, simbolo della grandezza del Made in Italy così come lo era Pietro, allievo prediletto del professor Carlo Vittori. Il quale, quando vide per la prima volta quel ragazzo mingherlino che voleva fare il velocista, gli disse di mangiare «tante bistecche».
Poi ne tirò fuori un grande campione, un asceta della velocità capace di qualificarsi per 4 finali olimpiche consecutive, dal 1972 al 1984, 4 come le lauree che questo fuoriclasse anche nella vita prese una volta finito di gareggiare. Mennea era così, non si fermava mai, viveva da forsennato come quando sprintava: 23 libri scritti o “compartecipati”, un impegno intenso come avvocato, europarlamentare e perfino direttore generale della Salernitana, prima che un male improvviso quanto letale se lo portasse via, a nemmeno 61 anni, il 21 marzo 2013. Rimane il ricordo di come spiegava i suoi successi, le sue 29 medaglie (18 d’oro) e le sue 530 gare in pista: «Se ho fatto quello che ho fatto», diceva Mennea, «lo devo solo a una cosa: che ho lavorato come un pazzo. Mi allenavo anche 6 ore al giorno, sempre, anche di nascosto. Non ho mai avuto paura della fatica. Allenarsi è tutto. Anche quando sei sfinito, è una bella stanchezza». Ecco perché era ammirato da Valery Borzov, Don Quarrie, Allan Wells, i migliori statunitensi: Mennea li ha affrontati tutti, e non ha mai chinato la testa. Ed è stato anche l’unico rappresentante dell’atletica italiana, insieme con Sara Simeoni, capace di far lievitare con le sue vittorie le vendite dei giornali sportivi, parola di chi li dirigeva. E teneva gli italiani incollati alla tv come quando c’erano il calcio o la Ferrari. Al fenomeno di Barletta avrebbero voluto intitolare anche una fermata della metropolitana di Londra, quella di High Street Kensington, onore riservato ai più grandi. E allora come non ripensare a quando Muhammad Ali/Cassius Clay volle conoscerlo, dopo aver sentito tanto parlare di quello sprinter che non era un marcantonio ma correva veloce come il vento, antesignano di quel Carl Lewis con cui poi condivise l’esperienza dei Giochi di Los Angeles. «Ma tu sei bianco!», esclamò uno stupito Alì quando si trovò davanti Mennea, che gli rispose «Sì, ma dentro sono più nero di te» e poi il discorso finì in un abbraccio.