Giovanni D’Alessandro: «Scrivo  per fare innamorare i lettori» 

Il romanziere pescarese racconta il mestiere di narratore e la passione per la sua terra «Parlare della bellezza dell’Abruzzo è quasi un’ovvietà: è una delle regioni più belle d’Italia»

In cosa consiste il mestiere di romanziere? Per Giovanni D’Alessandro non ci sono dubbi: «Nel far innamorare i lettori, sennò che si scrive a fare?». Scrittore, saggista, avvocato. Di famiglia abruzzese, nato a Ravenna, fin da giovanissimo vive nella sua regione d’origine. L’Abruzzo è ricorrente nei suoi libri, «fonte di ispirazione e commozione», fin dai suoi esordi nella narrativa con “Se un Dio pietoso”, pubblicato da Donzelli nel 1996. Il romanzo, ambientato a Sulmona nei primi del 1700, vincitore di prestigiosi premi, è stato definito «autentico caso letterario degli anni ‘90».
I suoi romanzi sono ambientati quasi nella totalità in Abruzzo, terra in cui vive fin da bambino. Che regione è l’Abruzzo?
Soltanto due tra i sette romanzi pubblicati non sono ambientati in Abruzzo: “I fuochi dei kelt”, rivisitazione della guerra gallica attraverso gli occhi di un giovane auriga, e “La tana dell’odio”, ambientato nell’attuale Bosnia-Erzegovina, sullo sfondo della guerra del ’92-’95. Gli altri cinque sono saldamente impiantati in Abruzzo, per me fonte di grande ispirazione. Ho vissuto a Ravenna i miei primi anni, ma sono di origine sulmonese. Vivo a Pescara da oltre 50 anni. Parlare della bellezza dell’Abruzzo è quasi un’ovvietà: è una delle regioni più belle d’Italia per natura, storia, cultura, arte. Con la stessa obiettività, bisogna dire che è una regione in cui vivere, purtroppo, non è facilissimo. Mi riferisco alle opportunità lavorative, al funzionamento di infrastrutture e servizi.
Si è laureato in Giurisprudenza all’università di Teramo. Come si coniugano l’attività di uomo di legge e quella di scrittore?
Si fondono con difficoltà perché l’attività lavorativa è molto assorbente. Fondere queste due realtà è una sfida. Scrivere è un mestiere difficile. Bisogna avere una disponibilità di tempo che non registri interruzioni, cosa per me rara. E far coincidere questo con l’ispirazione.
Da dove arriva l’ispirazione?
Da una commozione, la chiamerei così, per determinati argomenti. Temi fondamentali della mia narrativa sono la contemplazione dell’esistenza umana nelle sue fasi più drammatiche. Una contemplazione che possa coinvolgere e commuovere anche il lettore. Ho affrontato il tema della guerra in tre romanzi. “La puttana del tedesco” è una grande storia d’amore ambientata nel 1943-44 durante l’occupazione tedesca, tra una donna abruzzese e un soldato della Wehrmacht. In altri romanzi, invece, ho trattato di altri temi, come la letteratura, altra fonte di ispirazione per me.
Qual è la funzione della narrativa e cosa, secondo lei, manca a quella di oggi?
Ritengo che la narrativa di oggi non prenda più a cuore il lettore, Dobbiamo tornare a farlo innamorare. Questa è la funzione di sempre di ogni narratore: indurre un’immedesimazione, fare in modo che si torni a casa con la voglia di aprire il libro, di riversarsi in queste storie. Quando si produce questa magia vuol dire che il romanzo funziona. Non amo la letteratura imperante che non induce un coinvolgimento nel lettore.
Cosa ama leggere?
Sono un esperto di letteratura anglosassone del ‘900. Mi piacciono molto i classici, perché i classici di ogni letteratura e lingua contengono l’universale veicolato in una storia particolare. Quando ci avviciniamo a grandi opere ci avviciniamo all’ambito di un genio. Sono un grande fautore di classici. Dai classici abbiamo tanto da imparare e un classico non si finisce mai di imparare: ogni lettura è una nuova lettura. La narrativa contemporanea mi sembra asfittica e dominata dalla variante della promozione editoriale. Mia grande fortuna è che il pubblico, senza promozione, ha amato i miei romanzi e si è affezionato ad essi.
Quando ha iniziato ad appassionarsi alla scrittura?
Sono un amante della lettura da sempre. Il mio esordio nella scrittura, invece, è tardivo. Ho scritto il mio primo romanzo all’età di 41 anni, prima avevo scritto soltanto di saggistica di diritto. Ho avuto la fortuna rarissima di passare dall’essere un vorace lettore allo scrivere un romanzo d’esordio, “Se un Dio pietoso”, che è stato amatissimo. Ho avuto un battesimo molto fortunato.
E’ molto intenso il lavoro di ricerca che precede la scrittura vera e propria di un romanzo. Cosa succede quando si mette davanti alla pagina bianca?
La parte della schedatura, lo studio che precede la scrittura, è per me più lungo e impegnativo della scrittura stessa. Ogni romanzo è in qualche modo un romanzo storico. Se ambiento un romanzo in un ospedale, devo conoscere tutto dei reparti. Per la stesura de “I fuochi dei kelt”, con protagonista un giovanissimo auriga di 16 anni, ho studiato tutta la guerra gallica, ma anche la letteratura e la saggistica a essa relative. Non ci si può avventurare senza avere alle spalle uno studio serissimo. Quando ho scritto “Soli”, che ha a che fare con l’arte medievale abruzzese, ho dovuto conoscere perfettamente quel mondo; non ci si può limitare ad alcune pennellate di contorno. Molti narratori contemporanei non studiano adeguatamente il contesto in cui ambientano le loro storie. Ritengo che gran parte dei romanzi non sia armonizzata con il contesto perché non viene studiato. Il romanziere vuole subito buttare su carta la sua storia, ma prima di fare questo dovrebbe conoscere il contesto in cui inserirlo. Una storia è come una casa: senza solide fondamenta non si può costruire.
A cosa sta lavorando adesso?
Sto finendo il nuovo romanzo. Non ha ancora un titolo. E’ ambientato in epoca contemporanea, tra l’Abruzzo, Venezia e l’Inghilterra. Affronta i temi dell’amore e dell’amicizia quali strutture portanti della vita. Il protagonista è un anglista; c’è molta poesia anglosassone del Novecento nel romanzo. La penna, per dirlo come la Tamaro, va’ dove ti porta il cuore. Mi sono concesso un’incursione nella mia camera delle meraviglie, cercando di far innamorare il lettore delle cose che amo.
Ha curato per molti anni due rubriche sul quotidiano il Centro. Cosa ama della carta stampata?
Scrivere sulla carta stampata è altrettanto prezioso e in alcuni casi più prezioso per il rapporto con il lettore. Per il Centro ho scritto con grande affetto circa 1.100 pezzi in 14 anni, per le rubriche settimanali. Ero orgoglioso del ritorno che avevo dal lettore, ne ero molto felice.
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