La musica e le parole a Pescina per raccontare Silone

foto di Marcello De Luca

1 Maggio 2025

Sala piena al San Francesco e tanti ospiti tra letture, canti e riflessioni. L’autore pescinese compose l’opera come villaggio in cui rifugiarsi durante una profonda solitudine

PESCINA. Oggi è noto cosa intendesse Pasolini per “Italietta”: il paese piccolo borghese, fascista e democristiano, conformista, ai margini della storia. «Vuoi che rimpianga tutto questo?», scriveva in polemica con Calvino. Ecco di seguito che spiega cosa rimpiange: «Il mondo contadino, sottoproletario, operaio, un universo transnazionale che addirittura non riconosce le nazioni, avanzo di una civiltà precedente».

Non l’età dell’oro ma «l’età del pane», perché i contadini di questo illimitato mondo preindustriale erano consumatori di beni necessari, ed era questo che rendeva necessaria la loro stessa vita (ma il discorso è più chiaro se lo si rovescia: una vita di beni superflui rende la vita superflua). Chi ha precorso questa idea di un’età del pane è il Silone (125 anni dalla nascita, oggi) a cui ieri si è reso omaggio, in un grande incontro organizzato dal Centro nel teatro San Francesco di Pescina, la sua terra. Prima, con le voci della corale folkloristica sulle partiture di Roberto De Simone (compianto, è scomparso lo scorso 6 aprile), i suoi cantanti infilati in costumi di un’epoca che ha preceduto il prosciugamento del Fucino.

Quelle note finirono sullo spartito per il Fontamara che Carlo Lizzani nel 1980 pensò per il cinema. Il suo Berardo Viola, Michele Placido, è in sala, in prima fila, aspetta di salire sul palco. Dietro di lui la sala è piena, silenziosa. Per il prefetto Giancarlo Di Vincenzo «è un orgoglio poter ricordare le proprie origini “cafone”», per il sindaco di Pescina, Mirko Zauri, è «uno dei giorni più importanti ed emozionanti di questo percorso amministrativo», perché, prosegue, «ci siamo rimboccati le maniche per questo evento, per Silone che è uno degli autori più tradotti nel mondo, ma anche un fautore della moderna comunicazione, e per Pescina che è non è soltanto una città ma è il simbolo di tutti i piccoli centri del mondo».

Poi loda la perfetta prefazione di Francesco Merlo, il giornalista che ha conquistato il palco con la facilità dell’eloquio, le battute brillanti, come quando dice di essere, come Silone, un «terrone che ha combattuto tutta la vita con le lingue e che ha sposato una donna inglese». Poi una pausa, chiude: «L’ho sposata perché mi insegnasse l’inglese». Il giornalista del Centro Domenico Ranieri introduce gli ospiti uno ad uno, fino al «padrone di casa». E la sala si fa buia, c’è un video d’archivio, una lunga intervista in cui è Silone a parlare: l’uscita dal Partito Comunista, il rifugio in Svizzera, un evento «penoso» che coincise con l’aggravamento della sua salute: «Continuavo ad essere uno straniero, con un passaporto falso, senza poter stringere amicizie, vivendo il lutto della perdita delle mie illusioni giovanili», dice Silone.

Ed è in questa solitudine che nasce Fontamara, un «villaggio nel quale abitare, costruito dai ricordi della mia infanzia e dell’adolescenza, con cui c’era anche la mia riserva morale e religiosa, con cui provare a sfidare le avversità». Dovrà ancora sfidare, in quegli anni ’30, la sfida della censura. Per il direttore del Centro, Luca Telese, «il successo di Silone all’estero è simile a quel fenomeno russo che si verificò quando, durante la fase di transizione del disgelo, c’erano alcuni libri legali ma non vendibili, reperibili solo in certe biblioteche, e allora molti si precipitavano lì, prendevano un libro, ne trascrivevano degli stralci che circolavano». E cita Sartre: «Silone non è un grande scrittore italiano, ma un grande scrittore europeo», poco prima che Merlo citi Camus che parla a Selma Weil: «A meritare il Nobel era Silone. Silone parla a tutta l’Europa».

Il «più comunista dei romanzi italiani», come è stato definito in più di una occasione nel corso dell’incontro, letto attraverso la lente di Merlo sembra risvegliare l’«universo transnazionale» di Pasolini, perché senza confine, come quel popolo, è la condizione del dolore che attraversa le pagine di Silone. È di nuovo buio, c’è una scena del Fontamara di Lizzani, c’è il Berardo Viola di Michele Placido, che dalla prima fila della platea sale infine sul palco: «Sono emozionato, dopo così tanti anni, guardando questi posti ancora una volta. Stavo pensando a Lizzani, che non c’è più.

Ai tanti compagni che ho visto in quella scena, molti di loro non ci sono più». Ad accompagnarlo, un collaboratore storico come il musicista Davide Cavuti, che ha curato le sezioni musicali dell’incontro insieme al chitarrista Franco Finucci, da Fontamara a Oblivion di Piazzola. Si legge, si ride di un imprevisto, c’è spazio per il ricordo, l’aneddoto, la riflessione, tutte le voci si mescolano, il pubblico ogni tanto prende la parola per un suggerimento, uno spunto. Arriva l’ora dei saluti istituzionali e dei doni prima del congedo. E alla fine tutto si chiude com’era iniziato: sul palco si fa spazio alle voci della corale folkloristica abruzzese, che cantando salutano il pubblico. E il brusio di sottofondo. Sipario.