L'intervista a Eugenio Bennato: «Ecco la musica popolare, è il nostro riscatto sociale»

foto di Luca Terzini
Il cantautore sul palco della festa della Bcc a Montesilvano: «Quei suoni raccontano il presente». Il messaggio all’Abruzzo: «Con i canti si può rivendicare l’identità culturale»
MONTESILVANO. Eugenio Bennato ha tenuto un concerto durante la festa della Bcc a Montesilvano. Ecco l’intervista che il cantautore napoletano ha rilasciato al Centro.
Bennato, lei è uno dei fondatori della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Che cosa rappresentava negli anni Sessanta e che cosa rappresenta, invece, oggi?
«Era un’iniziativa profondamente innovativa, direi persino rivoluzionaria. Avevamo appena diciotto anni e stavamo aprendo una strada nuova, che ci ha portati alla scoperta delle radici della musica del Sud. Quel percorso mi ha permesso di guardare il mondo da un’altra angolazione, di raccontare le cose in modo diverso, più autentico».
In un’Italia affascinata dal pop e dal rock anglosassone, portare la musica popolare sui palchi non doveva essere semplice. Qual è stato l’ostacolo più grande?
«Mi fa molto piacere che lei mi ponga questa domanda. La difficoltà maggiore è stata superare il pregiudizio secondo cui la musica etnica fosse qualcosa di arretrato. In realtà noi conoscevamo benissimo il pop e il rock anglosassone e sapevamo che non erano così lontani dalla musica popolare: la stessa energia del rock vive in una tamburata, solo che si oppone alla logica del consumo e della produzione discografica».
E quali sono gli elementi della musica abruzzese che l’hanno colpita di più?
«Senza dubbio la ballarella abruzzese, che presenta sfumature e caratteristiche diverse rispetto alle altre danze del Sud».
Secondo lei, l’Abruzzo ha saputo raccontare fino in fondo la propria identità musicale o è rimasto ai margini del racconto nazionale?
«Questa domanda mi fa tornare alla mente un incontro avvenuto in Argentina, a Buenos Aires, nei primi anni Duemila, con un emigrante abruzzese che aveva fondato un circolo culturale proprio per difendere e rivendicare la sua identità. Per questo motivo le dico: siamo ancora all’inizio».
Nel brano “Che il Mediterraneo sia” lei canta: “nisciuno è pirata e nisciuno è emigrante, simme tutte naviganti”. Oggi, però, il tema dell’emigrazione viene spesso ridotto a slogan politici. Che effetto le fa?
«Quando scrissi quel brano, all’inizio degli anni Duemila, fui forse tra i primi a parlarne. Avvertivo un’affinità profonda tra le nostre lingue del Sud e le vibrazioni che arrivavano dall’altra sponda del Mediterraneo. Oggi quel verso racconta uno dei drammi del nostro tempo. Io, da musicista, ho cercato di coglierne l’aspetto umano e positivo, anche grazie all’incontro con musicisti tunisini ed egiziani che hanno arricchito enormemente il mio orizzonte musicale».
E se oggi dovesse spiegare la Taranta Power a un ventenne, che cosa direbbe?
«Partirei da un ricordo molto preciso: mi trovavo a New York, era sera, guardavo i grattacieli di Manhattan durante una tournée. In quel momento mi chiesi: “Ma se l’America avesse la sua taranta, cosa farebbe?”. La risposta fu immediata: “La renderebbe famosa nel mondo”. È per questo che ho aggiunto la parola “power”, in inglese».
Ma questo “potere” della taranta, in cosa si manifesta davvero?
«È energia e riscatto. È la forza che viene dal Sud. Ma è anche la capacità di dire le cose in modo antico, profondo. Se ho dato un contributo, spero sia stato quello di trasmettere questa forza alle nuove generazioni».
Quella marginalità del Sud esiste ancora oggi?
«Sì, esiste ancora una forte concentrazione del potere. Però rispetto al passato stanno emergendo correnti di pensiero che ribaltano questa visione e ci insegnano a riconoscere i valori positivi che il Sud custodisce».
Quali sarebbero?
«L’amicizia, l’ospitalità, l’irrazionalità intesa come alternativa al guadagno e al profitto cieco».
Sabato sera, mentre cantava ho pensato: stiamo perdendo la musica popolare o i contesti che la rendevano necessaria?
«Bella domanda. I contesti cambiano, è inevitabile. Ma la musica, per restare viva, deve sapersi trasformare. Ai miei concerti vedo tanti ragazzi divertirsi, emozionarsi, riconoscersi. La musica popolare è forse di nicchia, ma continua a camminare, soprattutto grazie alle nuove generazioni».
Cosa direbbe, dunque, a chi pensa che la musica popolare appartenga solo al passato?
«Direi semplicemente di venire a un mio concerto e guardare con i propri occhi se è davvero passato o se, invece, è un racconto contemporaneo».
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