L’intervista a Maurizio Battista: «Oggi in Italia lavorano i soliti quattro, nella vita conta l’umiltà»

Il comico romano è all’Aquila stasera con il nuovo spettacolo: «Io sono semplice come chi viene a vedermi in teatro, lo stimolo arriva dal fatto che ogni serata è diversa e non sai cosa ti attende»
L’AQUILA. Qualche vecchio trucco del mestiere, la passione che lo spinge a continuare dopo tanti anni, l’amore sconfinato per il suo pubblico. Maurizio Battista, comico romano classe 1957, ha il sorriso stampato mentre racconta il programma di Una serata indimenticabile, spettacolo che illuminerà il palco della Scalinata di San Bernardino per i Cantieri dell’Immaginario, questa sera alle 21.30. Incontenibile quando risponde alle domande del Centro, mischiando il ricordo alla querelle come la lingua al dialetto, Battista promette una serata di risate, accompagnato sul palco dalla musica della band romana Orchestraccia. Ma nello spettacolo, dice, c’è anche spazio per la riflessione.
Battista, si è messo a fare il serioso sul palco.
«E lì sono dolori (ride, ndr). No, è uno spettacolo comico ma ci sono dei momenti più teneri, cerco di proporre degli spunti. Inizio parlando di patriarcato, di maschilismo. Sono temi forti ma come sempre ne parlo senza darmi arie, non sono uno psicologo ma una persona come tante».
Proprio questa semplicità è ancora la chiave del suo successo.
«Io sono come le persone che vengono a vedermi, ma in un mondo in cui i comici si sentono superiori al proprio pubblico il mio modo di essere viene visto come un fatto speciale».
Pensa a qualche collega in particolare?
«No, è più facile escluderne due o tre che si salvano. Tutti gli altri sono così, cinque gradini sopra tutti. Guarda quelli che sono usciti dalla scuola di Proietti, che invece era una persona semplicissima. Purtroppo, da grande maestro quale è stato, non ha saputo insegnare il valore più importante: l’umiltà».
Quindi è d’accordo con Michele Morrone a proposito delle caste della cultura?
«Scherzi? Ha ragione da vendere. Non se ne rende conto solo chi non vuole vedere come stanno realmente le cose».
Ma Morrone non parla da primo degli umili.
«Morrone non è Sciascia, si esprime in modo spartano perché quello è il suo linguaggio. Vogliamo negare che in Italia escono centinaia di film ogni anno ma i soldi e i premi finiscono sempre in tasca ai soliti cinque? Guarda le grandi cerimonie del nostro cinema, guarda gli attori che lavorano. Sembra che abbiamo solo due interpreti, due direttori della fotografia, due registi. Ti segnalo un nome».
Quale?
«Francesca Antonelli, per quanto mi riguarda la nuova Monica Vitti. Un’attrice pazzesca, ma tra quelle che lavora meno. Basta lei per spiegare che cos’è e come funziona davvero questa industria, questo salotto».
Ma nonostante tutto anche lei è spesso al cinema, l’anno scorso con “Tu quoque”. Come si trova a fare la sua comicità senza la risposta immediata del pubblico?
«È una cosa più fredda, è vero. Per me il contatto con il pubblico è tutto, però sono sicuro che chi guarda i miei film ritrova il Maurizio che conosce a teatro. Sono storie in cui si ride ma cerco anche una mia interiorità».
Però preferisce il palco.
«Non c’è paragone. L’attore al cinema lo può fare, bene o male, chiunque: ti metti lì, fai la tua particina, anche se non sei un granché alla fine porti a casa la giornata, finisci le riprese e te ne vai. Invece a teatro è diverso».
Più difficile?
«C’è una componente umana maggiore, devi confrontarti dal vivo con persone che reagiscono sul momento a quello che dici. Su un palco funziona una battuta, su un altro palco ne funziona una diversa. Non sai mai come andrà, chi avrai davanti, se il pubblico dell’Aquila sarà come quello di Isernia o di Roma. Questo lo fanno in pochi, la vera sfida è lì».
C’è un pubblico cresciuto con lei e uno che l’ha scoperta da poco. Si trova bene con tutti?
«L’uomo è lo stesso da sempre, dall’alba dei tempi. Tra i romani di duemila anni fa e quelli di oggi cambiano piccole cose legate alle epoche, alle mode, ai contesti, ma “la pappa” è quella. A cambiare sono io, che invecchio e imparo e quindi cambia il modo in cui vedo le cose. Però sì, mi trovo bene con tutti perché mi piace stare con il mio pubblico».
Da romano che cosa rappresenta l’Abruzzo per lei?
«L’Abruzzo e le Marche sono state una fucina fondamentale per molti comici, me compreso. Quando ho iniziato sono passato spesso per Pescara, per Grottammare e adesso mi rendo conto che, pur essendo di Roma, la costa adriatica mi ha dato molte più opportunità del Tirreno. C’erano almeno all’epoca tante opportunità per prendere dimestichezza con questo lavoro».
Oggi che consiglio dà a chi inizia?
«Bisogna essere umili. È una qualità che ti difende dalle brutte figure e ti fa stare vicino alla gente, vale sopra il palco e nella vita di tutti i giorni. Per me è stato fondamentale ed è l’unica cosa che conta».
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