Marco D’Amore: «Nel mio “Caracas” la Napoli che cambia»

L’attore a Ortona con il suo esordio da regista, domani la proiezione e l’incontro con il pubblico
«A volte è meglio non sapere le cose. Il bello della vita è proprio questo: ignorare che cosa accadrà domani; anzi che cosa accadrà tra un istante. Del resto, come potremmo nutrire qualunque speranza sul nostro futuro, se lo conoscessimo già?». Si apre così Caracas, l’omaggio di Marco D’Amore al romanzo Napoli Ferrovia di Ermanno Rea. Il film sarà proiettato domani alle 20 al Cinema Auditorium Zambra di Ortona, in occasione della giornata conclusiva dell’Ortona Film Festival, ideato da Arturo Scognamiglio e Lorenza Sorino di Unaltroteatro. Atteso ospite della rassegna, D’Amore – regista, interprete e cosceneggiatore di Caracas – incontrerà alle 22 il pubblico, nell’ambito dell’OFF Meet.
Protagonisti del film un affermato scrittore napoletano (Giordano Fonte, interpretato da Toni Servillo) che, dopo molti anni, torna a casa e incontra Caracas (Marco D’Amore), ex naziskin che si sta convertendo all’Islam. Nel cast anche Lina Camélia Lumbroso, nel ruolo di Yasmina. E poi c’è Napoli, altra grande protagonista, lontana dall’essere un semplice luogo geografico.
Caracas è liberamente ispirato a Napoli Ferrovia di Rea. Perché questa scelta?
«Il merito è di uno dei produttori del film, Luciano Stella, presidente di Mad. Con lui stavo realizzando un docufilm, Napoli magica; in quell’occasione mi regalò Napoli Ferrovia, uno dei pochi romanzi che non avevo letto di Rea. Lui mi disse: “Sono anni che cerco qualcuno che riesca a trarre un film da questo romanzo. Leggilo e vedi se c’è una possibilità”. Mi sono innamorato immediatamente del testo, l’ho condiviso con Francesco Ghiaccio (co-sceneggiatore di Caracas, ndr), mio socio da più di vent’anni, e abbiamo scritto il soggetto del film, che è piaciuto molto sia a Luciano che all’altro produttore, Roberto Sessa, di Picomedia. Da lì, è partita la macchina».
Da un lato, Caracas. Dall’altro, Giordano. Il film lascia molto spazio all’interpretazione personale dello spettatore…
«I protagonisti di questa storia sono delle entità, nella misura in cui hanno la capacità di diventare altro da sé continuamente. Questo lo fa Giordano, lo fa Caracas, lo fa Yasmina e lo fa la città, che è una dei protagonisti del film, perché cambia continuamente a seconda dei punti di vista attraverso la quale la si osserva. Caracas è uno da sé, rispetto all’osservazione che Giordano assume su di lui, rispetto al punto di vista di Yasmina e rispetto al punto di vista che egli stesso ha di sé, in questa continua evoluzione».
Ha dichiarato che questo film è un «progetto che prevede la partecipazione attiva di chi lo guarda». Cosa significa per lei raccontare storie?
«Significa sicuramente non sancire con il proprio giudizio una verità. Significa non sospendere quel sentimento meraviglioso, che sta nella testa dello spettatore, di poter costruire in prima persona un continuo di quello che ha visto. Cercare, più che di raccontarla, di attraversarla, perché nel momento in cui la attraversi la vivi sulla pelle e in quel senso è molto interessante esercitare la professione dell’ attore. Scevro da quel giudizio di cui parlavo, hai la possibilità non di dimostrare ma di mostrare una o le possibili verità a cui sei giunto in questo percorso, ma che demandi totalmente alla capacità dello spettatore di filtrare, di commentare, di assorbire o di rifiutare».
Che ruolo ha Napoli in questo film?
«Rispettando la volontà dell’autore, abbiamo cercato di raccontare, più che un luogo geografico, un luogo della coscienza. Napoli, in questo senso, si mette al servizio degli autori, perché ha maturato in sé una capacità di cambiare, una capacità di metamorfosi tale per cui, appunto, come dice Rea può essere sì Napoli, ma anche un barrio, una periferia, una baraccopoli, per cui qualsiasi cittadino a qualsiasi latitudine vi può ritrovare un pezzo del suo mondo. Rea scrive che, quando è ritornato a Napoli, si è sentito estraneo. Dice di sé di essere un extraterrestre; il punto di vista di un extraterrestre su un mondo nuovo in cui approda è interessante già per questo. Caracas dice di essere giunto qui da straniero, un altro punto di vista ancora diverso. Yasmina è parte di una comunità che la rigetta. E quindi ha un altro sguardo ancora».
Toni Servillo l’ha diretta a teatro. Com’è stato essere il suo regista?
«Ho cominciato a recitare con Toni quando avevo 18 anni. Ho girato il mondo con lui e alla professione si è mischiata la vita. Tra di noi c’è anche una grande confidenza, in una distanza, però, che ho sempre cercato di mantenere, perché penso che sia giusto tenere i propri maestri un po’ lontano da sé. Mi sono approcciato a questa richiesta con grande pudore, un po’ perché era un grande passo, un po’ perché sapevo che poteva essere difficile anche per lui pensare di essere diretto da me. Però, nel momento in cui Toni si è innamorato della sceneggiatura, è stato lui stesso a dirmi: “Da questo momento in poi non siamo più Marco e Toni: tu sei il mio regista, io sono il tuo attore e sono al servizio del lavoro, del tuo immaginario, dei tuoi desideri”. E così è stato. È stato bellissimo dirigere un attore così enorme. È una scuola anche all’incontrario».
Nella serie Gomorra ha interpretato Ciro Di Marzio, ruolo ricoperto anche nel film L’immortale, con cui ha conquistato il Nastro d’argento al miglior regista esordiente. Cosa le ha lasciato questo personaggio?
«Davvero tante cose. Alcune le tengo per me, stanno nel privato della mia esperienza. Mi ha insegnato che la vita è veramente uno strano scherzo: io e lui siamo coetanei e siamo nati a pochi chilometri di distanza, con la differenza che io ho avuto tante possibilità e lui forse nessuna. Questo mi ha fatto riflettere moltissimo sulle fortune che ho avuto, sulla gratitudine che devo costantemente dimostrare. E poi, il personaggio di Ciro mi ha aiutato a esordire alla regia, a presentare in maniera indipendente le mie cose, mi ha probabilmente spinto oltre le mie reticenze, oltre i miei limiti.